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Luoghi del silenzio e della vertigine

emmanuel_fermo (4)logo DAVOLI VOSTRI

 

di Filippo Davoli *

IL COMMENTO –  Giorni difficili, a Fermo. Giorni in cui alcuni vorrebbero etichettare la nostra bella città come un coacervo di violenze e razzismi. Giorni di rumore fastidiosissimo, di dolore profondissimo, di smarrimento. Ma chi conosce Fermo, la sua storia millenaria di arte e di civiltà, sa che una pessima rondine non ha il potere di fare primavera. Anche se lascia addosso una ferita che sanguina. Ma questa è un bene che rimanga: sarebbe orribile cancellare tutto con un colpo di spugna, come fanno i giornali quando arriva il nuovo scoop che fa vendere. Lasciamo che sia la Giustizia a ricostruire i tasselli di un quarto d’ora di follia: noi (io lo sto già facendo da quel momento) abbiamo la nostra ridiscussione quotidiana con lo specchio, che ci attende. E il silenzio. Che ha le sue parole e le sue luci.
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Sì, il silenzio ha anch’esso le sue parole, i suoi voli fantastici, le sue immersioni ed emersioni, i suoi colori. Ne ho avuto conferma visitando la bella mostra fotografica “I luoghi del silenzio”, allestita a Fermo presso le Piccole Cisterne Romane (alla sommità della Strada Nuova, dove le corriere girano per tornare indietro, non potendo passare sotto l’arco che apre a Piazza del Popolo – la precisione è quasi d’obbligo, per tutti quelli che non saprebbero dove cercare le Piccole Cisterne Romane e farebbero magari l’errore di recarsi presso quelle grandi, magari con scarpe inadatte alle pendenze dissestate dei magnifici vicoli fermani: qui invece è tutto in piano, su comodissimo asfalto, ed anche con una ottima predella d’accesso per disabili; una rarità che indica, già dal suo piccolo, il grado di civiltà del posto).
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C’è tempo fino al 18 luglio per visitarla: ancora qualche giorno. Tant’è: le cose belle non possono e non devono durare troppo a lungo, altrimenti perdono fascino. La mostra è davvero silenziosa: manca un cappello introduttivo (che parrebbe una svista, un errore, e invece finisce per essere un rovello che stimola l’incontro con immagini che sono bellissime, alcune travolgenti e follemente evocative; altre addirittura troppo perfettamente belle, al punto di togliere fiato al sogno: e potrebbe essere un limite…).

Sono i luoghi abbandonati di Fermo: luoghi pieni di tracce, di rimandi, di solitudine innamorante e struggente, di memorie – per chi ha memoria di quei luoghi – , di sollecitazioni ad un tempo che nel suo male era tuttavia più attendibile del nostro (penso a certi luoghi del lavoro umano, dismessi eppure ancora respiranti). Personalmente mi sono commosso e ho tremato a lungo davanti alla foto di un portoncino verde, sormontato dalle tradizionali lunette in vetro e ferro battuto, qui di colore arancione. Sembrava di sentire palpitare la vità là dietro, voci di bambini e passi di vecchi, e poi quel silenzio acuminato, feroce, ma anche dolcissimo… Brrr… sono rimasto inchiodato a quella foto. Ho anche pensato che quella foto sono io. Tant’è che m’è rimasta dentro, mi ha catturato, non solo sedotto. Beh, dovete andarci. È una mostra bella, che vale la pena visitare.
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Ho incontrato anche la scultura che raffigura “Vingè”, all’uscita degli ascensori: che ci fa laggiù tutto solo, lui che era sempre in giro tra piazza e Campoleggio? Ci vorrebbe un luogo più idoneo, più fermano e meno turistico, meno di passaggio. Sarebbe bellissimo, anzi, un vero e proprio Museo dei fermani di tutti i giorni: facile organizzare una collezione di personaggi famosi. Invece sono quelli di tutti i giorni che hanno necessità estrema di salvaguardare la propria memoria, la propria identità. I personaggi fermani… Una piazzetta allestita per sempre coi volti e i busti dei fermani di tutti i giorni, dove un genitore può portare i propri figli e raccontargli aneddoti, trasmettergli la propria fermanità, la meraviglia del dialetto. Come mai nessuno ha ancora dedicato una statua a Pillucco, tanto per dirne uno?
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“Non ci avevate pensato? Siete stati somari!” – ma non è un’invettiva, piuttosto è il pre-testo per tuffarmi in direzione di Ortezzano, dove sta per avere inizio (dal 14 al 17 luglio) la grande e bella kermesse del Festival “Somaria” (splendida ironia, che aleggia sorridente dalla rivista “Solaria” all’azienda Tuzi dove vivono tanti dolcissimi asinelli): e il festival è pieno di belle cose, dalla poesia alla musica, dalle piccole bancarelle alla ristorazione popolare, dagli incontri con personaggi famosi alle occasioni di incontro e coinvolgimento tra tutti i partecipanti (quest’anno c’è un torneo di calcio camminato – sì, avete letto bene: una forma di calcio che, se corri, ti prendi fallo; naturalmente mi sono iscritto! Finalmente uno sport dove posso dire la mia…), fino a loro, i protagonisti: i somari, che a dispetto della tradizione, sono animali intelligentissimi e sensibili. Che bella idea che ha avuto Gianluca Tuzi, che so da tempo lettore di grande raffinatezza, ad ospitare questa bellissima iniziativa a casa sua. Bravi anche i fratelli Pagliacci e il Presidente dell’Organizzazione, Massimo Del Gatto: non mollate, ragazzi. State facendo una cosa importante più di quanto vi accorgete.

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Fermo ha bisogno, in questi giorni, di rialzare la testa. Dalla prossimità ai Monti Azzurri gli viene un ulteriore chance: è Smerillo, dove – anche lì – sta per avere luogo un altro festival, “Le parole della montagna” (giusto una settimana dopo “Somaria”). Quello con Smerillo è un altro appuntamento che non mi sogno mai di mancare, di cui sono onoratissimo di essere ospite fisso da anni. Moltissime le occasioni di incontro (perché “la vita è l’arte dell’incontro”, come diceva Vinicius De Moraes): ricordo alcuni anni fa l’Imam di Firenze, con cui sono rimasto a parlare dopo pranzo per ore; una persona deliziosa, gentile, profonda. Il Festival si occupa ogni anno di una parola cardine, a fare da guida alla montagna e ai suoi scorci, alle sue camminate, alla sua aria formidabile. Quest’anno Simonetta Paradisi – che organizza il Festival in collaborazione con il Comune – ha voluto puntare l’obiettivo sulla parola “vertigine”. La vertigine di una risalita o di una scalata, ma anche la vertigine del pensiero filosofico o metafisico; la vertigine che fa da contraltare alla misura del metro in poesia; la vertigine di un concerto per chitarra sola (suonerà Emanuele Franceschetti, che è anche giovane e valente poeta di Montegranaro, e di cui mi punge vaghezza, questa settimana, di segnalarvi i libri, specialmente il più recente “Terre aperte”, edito da Pequod) in mezzo al bosco a mezzanotte. E così via.
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Da vertigine – in questi giorni sotto choc – è anche quello che è successo nel cuore di Fermo. Quello che più mi sconcerta e fa male è il tasso di violenza, sia verbale che fisica, in cui si è consumato il dramma. Qualcuno per contr’altare ha evocato i morti senza cortei dell’attentato a Dacca, qualche altro ha protestato per la presenza eccessiva dei politici. Io mi limito a registrare una volta di più il rumore che confonde il dolore – anche laddove vorrebbe ribadire i principii; anche quando se ne fanno latori gli uomini delle Istituzioni – e parallelamente una catena di confronti senza senso (altro rumore) che, a non fermarla, una buona volta, ci trascina tutti un po’ più giù ancora. Vorrei far mie le parole che Sandra Amurri ha pubblicato sulle colonne del Fatto; ma anche quelle che Mons. Conti ha pronunciato nella sua omelia delle esequie, a proposito del rischio peggiore: la divisione. Che non ha colore, né politico né della pelle. È piuttosto il dramma del pregiudizio a tutti i livelli.

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È come quando scrissi “La morte verticale”, un poemetto dedicato alle vittime delle Torri Gemelle: in quel clamore evocavo le infinite “morti orizzontali” ad ogni latitudine, per le quali nessuna televisione ha mai sprecato un minuto di trasmissione. Dovremmo cioè imparare a leggere la vertigine del male, e la concretezza del dolore, dentro un umilissimo silenzio, che ci chiama a vario titolo tutti in causa.
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Vi abbraccio, fermani. Non è detto che ve ne debba fregare qualcosa. Ma vi abbraccio di cuore.

*Filippo Davoli, poeta fermano, vive e lavora a Macerata. 


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