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Nell’Aria

Quante macchine, quanti camper, quei primi giorni… come in una festa di senso opposto a quello tradizionale. Una comunità che si ritrova viva per farsi reciprocamente forza, per infondersi chissà da dove il coraggio che scopre di non avere
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Filippo Davoli nel suo camper

di Filippo Davoli*

Filippo Davoli

Filippo Davoli

Dal 30 ottobre non so più cosa sia una casa di mattoni. O meglio, sto ricominciando a saperlo, frequentando quelle dei miei amici più cari, ma solamente di giorno (uso della toilette e della doccia, qualche breve sorvolo online più agevole di quelli col cellulare, pranzi domenicali).
Vivo su quattro ruote (non la rivista; mi diverto più con i libri che con i periodici). Cerco, per come possibile, di dimenticare i balli del mattone che si sono susseguiti dal 24 agosto in poi. Dopo quella data, il ballo del mattone non è stato più quello lanciato da Rita Pavone, voce tra le migliori e più indicative del boom anni ’60; ma solo quell’altro. Quello che ci ha catapultati nella precarietà più immediata, nella forza della natura più ingovernabile, riaprendo antichi panici e rendendoci tutti più fragili, reattivi e preoccupati.
Dice: prima o poi tocca morire. Vero, ma un conto è un letto graduale, un altro conto il colpo che ti secca al volo, e un altro conto ancora quello di vederti crollare il mondo addosso, senza che questa sia una metafora più o meno dolorosa. Non so: invidio moltissimo gli impavidi o gli sconsiderati che non temono il terremoto. In me si risveglia un senso panico della Natura, nella consapevolezza dell’estrema miseria della nostra condizione: tante battaglie, tanti puntigli, tanti pensieri… che svaniscono in quell’attimo orrendo e di potenza superlativa. Che cosa grande, la Natura… e che cosa tremenda, la Natura…
Vivo su quattro ruote: prima in macchina; poi in camper: un antico sogno della mia infanzia, la casa viaggiante, una stanza allargata per supportare la sopravvivenza di prima necessità. Eppure (anche) la ri-creazione di un mondo, di un nido, di un’intimità all’ennesima potenza.

img_3458Come si ascolta il jazz nelle notti di camper… non c’è auditorium che tenga. È un’emozione troppo forte e troppo seduttiva. Nei miei ascolti migliori di queste notti, le sessioni leggendarie tra Bill Evans e Chet Baker: una magia senza confronti, che ha il potere di dilatare il tempo dentro la mia piccola scatola magica piena di sogni. Io e il cane, il mio “meticcio fumettoso” che abbaia se gli propini il pop deteriore in voga per radio; ma che si rilassa e gongola e scodinzola alle prime note di tromba di Chet. E che, proprio quando decido di rilassarmi un po’ di più sulla dinette, è già là che mi ha fregato il posto e mi guarda come per dire “non ti mettere niente in testa. Qui stanotte ci sto io”.

 

I giorni in macchina sono stati belli: anonimi, in mezzo alle macchine anonime di tanti altri concittadini sconosciuti ma non più anonimi, non foss’altro che per quel comune destino improvviso e inaspettato; per quell’ospite inatteso e sgradito. Eh già, caro sisma… sei davvero poco simpatico. E me lo immagino come un vecchio che tenta disperatamente di frenare il colpo di tosse che gli sale al gargarozzo, ma… tac, lascia partire la botta. Farebbe per scusarsi, ma usa male il fiato residuo e gliene parte un altro! Sarebbe bello, se fosse davvero così. Ci salirebbe un moto di diplomatico autocontrollo, nonostante il desiderio di rifilargli uno scappellotto. Ma non è così: non è un vecchio, non è una persona, non ha un cuore, non ha nemmeno la volontà di infierire. È una cosa enorme vista coi nostri occhi, che però è minuscola e indifferente, guardandola dall’altro capo dell’Universo, oltre il sistema solare, oltre la via Lattea che contiene quest’ultimo, oltre le galassie che contengono anche la nostra… e più in là, più in là, più in là… e fin dove si riesce a non poter più immaginare. Eppure, se guardo per un attimo di sottecchi il signore che dorme nella Cinquecento a fianco a me, tutto ripiegato nell’abitacolo per riuscire comunque a passare qualche ora senza incubi, mi par chiaro di vedere anche l’altro capo dell’Universo.
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Quando la poesia si fa strada ha parole che sanno arrivare al cuore in maniera diretta, riaprendo fessure da dove penetra la luce in maniera più netta e consapevole. Non servono le orrende parafrasi con cui la scuola avvelena il gusto degli studenti; non servono nemmeno le analisi meccaniche dei singoli versi, a cui eventualmente tornare dopo, quando il cuore – già colpito al suo centro – sente il desiderio di capire di più, di sviscerare tutto di ciò che l’ha sedotto. Ma al momento della fulminazione no: lì basta la consanguineità che buca il tempo e lo spazio e sa come arrivare a destinazione.
Pensavo all’umanità dei cacciatori ascolani, colti dalla scossa del 30 ottobre sull’altana: noi tutti, in genere, quando ancora non sappiamo dov’era l’epicentro, commentiamo il terremoto forte dicendo “questo ha buttato giù tutto”. Abbiamo un istinto immediato per le pietre, per la difesa delle cose. Quelli invece dicevano “questo ha ammazzato la gente”. Mi è sembrata un’espressione potente. Più della scossa.

Quante macchine, quanti camper, quei primi giorni… come in una festa di senso opposto a quello tradizionale. Una comunità che si ritrova viva per farsi reciprocamente forza, per infondersi chissà da dove il coraggio che scopre di non avere. Giorni creduti per sempre: come se la condizione di precarietà potesse assumere un colore definitivo, significare un nuovo modo di essere; un’opportunità, finanche, di vivibilità alternativa. E invece, pian piano, anche i visitatori della strada, i cari volti sconosciuti, tornano da dove erano venuti; riprendono gli abituali contegni, le più fastidiose contumelie condominiali, i tran tran lavorativi e domestici, le attese e le disillusioni, le stanchezze e le alienazioni. Il terremoto non è finito, ma si impara a convivere anche con esso. O quanto meno si tenta di esorcizzarlo alla meno peggio, ringraziando Dio se le scosse di assestamento non si avvertono. E anche – ma più segretamente, inconfessabilmente… – se la scia ballerina si distanzia da noi e va a far visita ad altri territori. Sperando che non ammazzi altra gente, e che non ammazzi più nessuno, e non distrugga più nessuna casa. Certo. Ma intanto più in là. Dovunque sia.
Bieco egoismo taciturno che riprende le consuete posizioni, come due giorni dopo l’epifania; quando cioè sono finiti i bagordi affettuosi che parrebbero ogni anno ricomporre il più inguaiato dei contesti parentali e si può ricominciare con i giudizi e i pregiudizi. Che noia, anche le faide…
Adesso, nell’area di sosta dei camper siamo rimasti in due. Curiosamente, l’altro è abitato da una mia amica di sempre con cui sono andato a scuola insieme. Anche lei ha un cane: una femmina. Siamo pari.  L’applicazione impietosa del cellulare mi avvisa che c’è stata venti minuti fa l’ennesima scossa. Alzo il volume di Chet. Un assolo imperdibile. Ne riparliamo domani.

*Filippo Davoli, scrittore, nato a Fermo nel 1965, vive e lavora a Macerata


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1 commento

  1. 1
    Simone Simonao il 12 Dicembre 2016 alle 0:15

    Caro Filippo,
    ho letto il tuo articolo/poesia, forse più poesia che articolo di cronaca; in questo sei sempre stato un maestro.
    Hai una rara abilità di coinvolgere il lettore nel più vario sentimento che trasuda dalle tue parole – a prescindere da ciò di cui tu stia parlando – che la vicenda, che stai narrando, quasi sembra finzione e non, invece, la dura e cruda realtà.
    Forza e coraggio, la casetta di legno è vicina! 😉
    Tutto questo, presto, sarà “soltanto” un brutto ricordo.
    Ps: sappi che ho adottato a distanza quello spettacolo di cane che ti ritrovi.
    Il tuo amico lontano, Simone

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