Il ricordo di padre Pietro,
aspettando il nuovo miracolo
per il monastero di San Leonardo

LIBRI – Intervista al giornalista Vincenzo Varagona, autore del libro “Il muratore di Dio”, che martedì verrà presentato a Roma

di Andrea Braconi

Padre Pietro Lavini quell’eremo di San Leonardo (anzi, “il monastero”, come giustamente voleva fosse chiamato) avrebbe iniziato a ricostruirlo senza indugi. Non si sarebbe fermato di fronte alla forza della natura e avrebbe chiesto sostegno a chiunque fosse riuscito a passare lì, ad oltre 1.100 metri di altitudine, sopra una Gola dell’Infernaccio oggi trasformata dai crolli provocati dalle continue scosse di terremoto. E lo avrebbe fatto senza urlare, con quel sorriso che in tanti, per decenni, hanno potuto apprezzare.

Per tutti era “il muratore di Dio”, un appellativo che gli fu dato da Giovanni Paolo II e che Vincenzo Varagona, giornalista del Tgr Rai delle Marche, ha fatto suo come titolo per un libro che ne racconta l’umanità, anche attraverso le voci di quel popolo che saliva lassù “per rendere grazie all’opera di padre Pietro e per ricominciare a lodare Dio, partendo dalla bellezza e dalla sacralità del creato”.

Padre Pietro ci ha lasciato il 9 agosto 2015, dopo essere stato colpito da un ictus nell’autunno precedente, ma ancora oggi rimane una figura fondamentale, non soltanto per la comunità dei Monti Sibillini.

E martedì prossimo Varagona sarà a Roma, dalle ore 18.30 nella Libreria Paoline Multimedia International, per presentazione la sua pubblicazione alla presenza di Edoardo Menichelli, Arcivescovo Metropolita di Ancona-Osimo, Fabio Colagrande, giornalista di Radio Vaticana, Ingrazio Ingrao, vaticanista del Tg1, Padre Gianfranco Priori (Frate Mago), rettore del Santuario dell’Ambro, e Romano Cappelletto dell’Ufficio Stampa Paoline, la casa che ha editato il libro.

Vincenzo, quando hai conosciuto Padre Pietro?

“Molti anni fa. Andavamo su al monastero in gruppo, con amici. Portavamo il pranzo al sacco, partecipavamo alla santa messa e poi si mangiava insieme a lui, condividendo quel che portavamo. Lui ci metteva il vino rosso. Sempre. Un’esperienza di grande umanità. Il monastero era già praticamente ultimato, ma chiaramente lui lavorava sempre. Trovava sempre qualcosa da fare. Nella nostra esperienza era di una simpatia unica. Avremmo sperimentato poi che non ci considerava perditempo, appartenevamo a quella fascia di persone, per così dire, gradite, con le quali si trovava a suo agio…”

Cosa ti ha colpito di questo uomo?

“L’essenzialità coniugata con l’equilibrio e serenità interiori. Vestiva con indumenti puliti ma logori, a parte ovviamente la tuta da lavoro che portava i segni, non solo del tempo, ma anche del tipo di impegno ‘sul campo’. Si potrebbe pensare che la vita da muratore gli facesse difettare di profondità. Niente di più sbagliato. Parlava con le pietre come San Francesco con gli animali. Era convinto che le pietre fossero ‘sorelle’: tanta gente provava a spaccarle, inutilmente. Arrivava lui, con un colpetto le spaccava in due. Mai visto cose del genere. E però, a messa non volava una mosca, aveva una profondità di pensiero insospettata. Durante la messa era vietato raccogliere offerte per evitare di distrarre i partecipanti. Poi c’era la cassettina per chi voleva lasciare qualcosa.”

Cosa ha rappresentato l’eremo e cosa rappresentata ancora oggi?

“L’eremo, anzi, il monastero, come amava correggere, bonariamente, è stato un simbolo, un sogno, un traguardo, una realtà tangibile. E’ tornato ad essere di nuovo un simbolo, un sogno, di nuovo un traguardo, oltre che una realtà tangibile. Fino agli anni ’70 era un simbolo: ruderi, che rappresentavano quello che era stato, un punto di riferimento per la cristianità in cammino fra Loreto e Roma. Un centro di spiritualità importante, citato da molti testi dell’epoca. Padre Pietro ha avuto una ‘chiamata’: farlo tornare una realtà spirituale, un centro di spiritualità internazionale. Ci è riuscito, a dispetto di tutto e tutti. Poi, per uno strano disegno, lui è venuto a mancare, all’improvviso, quando poteva ancora dare abbastanza, se non tantissimo (aveva quasi 90 anni..) e il terremoto ha fatto il resto. E’ evidente che quando sta succedendo rappresenta una sfida.”

Hai parlato di un “grande miracolo” realizzato da Padre Pietro.

“Che la realizzazione del monastero rappresenti un miracolo lo dice padre Pietro, non io. A chi, incredulo, sale il monte e se lo vede, quasi all’improvviso, stagliarsi sui Sibillini, padre Pietro rispondeva e – in qualche modo – ancora risponde: mica l’ho fatto io… l’ha fatto Quello là (e indica il cielo), io sono solo un paio di braccia.”

Che valore simbolico ritieni che abbia oggi questo tuo libro?

“Frate Mago, che ha firmato la prefazione, ama dire che neanche San Pio ha avuto un libro a neanche un anno dalla morte. Convengo che la realizzazione del libro, o meglio, il realizzarsi di diverse condizioni che hanno portato alla stesura del testo e alla sua pubblicazione, hanno un po’ del miracoloso… come il monastero.. era evidente che “s’aveva da fare…”.Poi non dimenticherò mai la prima presentazione, al monastero, il 9 agosto, a un anno esatto dalla morte: ci saranno state mille persone… di nuovo Frate Mago ha detto: non ho mai visto tanta gente, tutta insieme, qui al monastero.. è un miracolo… Dopo il terremoto, dicevo, un’altra sfida, secondo me ci vuole un altro miracolo. I danni sono molto ingenti, non si capisce bene come intervenire senza macchine. Ma sono convinto che il miracolo si ripeterà. A chi chiedeva a padre Pietro cosa sarebbe stato del monastero dopo la sua morte lui rispondeva serafico: Dio ha permesso tutto questo, sarebbe miope pensare che lo lasci tornare giù com’era prima. A meno che… non abbia bisogno di un altro padre Pietro, un altro suo figlio, da mettere nuovamente alla prova… Chissà, tutto è possibile…”

 


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