Madre Veronica: “Ho rinunciato all’amore
per qualcosa di molto più grande”

L'incontro all’interno del Monastero delle Clarisse Cappuccine. Il racconto di Donatella (Madre Veronica ndr) inizia tra le colline di Recanati. Un’adolescenza come tante altre

di Claudia Mazzaferro

Sono arrivata all’appuntamento di corsa, due borse all’attivo e il cellulare in mano. I figli a scuola, la spesa da fare e quel senso di perenne ritardo sulla vita. Un passo soltanto all’interno del Monastero delle Clarisse Cappuccine e ho sentito come se stessi profanando un luogo e un tempo. Ho atteso Madre Veronica dietro ad una grata. Mi sono persa a seguire il rincorrersi del ferro che mi teneva a distanza. Mi sono guardata intorno e ho visto l’essenziale. Ero lì per chiedere, per soddisfare la mia curiosità, per parlare, da donna a donna. E invece ho ascoltato. Una storia distante dall’apparenza, dal dissidio tra maternità e lavoro, dai diritti negati. Eppure moderna.

 

Il racconto di Donatella (Madre Veronica ndr) inizia tra le colline di Recanati. Un’adolescenza come tante altre. Gli anni ’60, il collegio, la famiglia, gli amici, un lavoro da commessa in profumeria e l’amore. “Avevo una cotta – racconta con una grazia contagiosa – mi piaceva un ragazzo, pensavo a sposarmi e ad avere dei figli. Durante il primo anno alle scuole superiori facevo di tutto per non essere come le suore dell’istituto. Avevo sedici anni e tutti i sogni della mia età”.

Poi, cosa è accaduto?

“Un giorno un frate minore ci mostrò delle filmine della Terra Santa. Ricordo benissimo quell’immagine, una pianta di pere in mezzo al deserto. Ho sentito dentro di me come una catena che si stava spezzando ma non avevo la consapevolezza di ciò che stava accadendo. Pensavo a cosa avrebbe pensato la gente se fossi diventata suora, alla mia famiglia. Volevo dei figli ma così avrei potuto averne tanti di più. Era un pensiero che si faceva sentire di tanto in tanto. Quando tornavo a casa, durante il fine settimana, quella voce si spegneva. Uscivo con gli amici, vedevo il ragazzo di cui ero innamorata e d’improvviso tornavo ad essere l’adolescente senza troppi pensieri”.

L’amore, a quell’età, ha una forza devastante. Eppure

“Eppure non mi bastava. Inoltre, mi rendevo conto che se rinunciavo a qualcosa ero molto più felice. Mi decisi a parlarne con una suora, che in realtà era mia cugina. Mi disse di pensarci. Iniziai ad andare a messa tutte le mattine. Un giorno, durante il tirocinio che normalmente si svolgeva nelle scuole elementari, tre ragazzi mi dissero “ma se non ti dai via cosa vali?”. In quel momento mi resi conto che non potevo valere solo per questo. Andai in chiesa, piansi molto e dissi a Gesù che la mia vita l’avrei donata a lui”.

E la famiglia? Perché la vocazione spesso viene vissuta come un dramma dai familiari, specie se si è donna.

“Era estate. Una sera entrai in camera dei miei genitori e dissi tutto d’un fiato che volevo prendere i voti. Ricordo che mio padre, il mattino seguente, venne da me per dirmi che non me lo avrebbe impedito, di pensarci bene perché non avrei potuto tornare indietro. Mia madre piangeva di nascosto”.

La più grande rinuncia di quella vita?

“Avevo sedici anni quando me ne sono andata. Mio fratello tredici e mia sorella undici. E’ stato un dolore fortissimo separarmi da loro. Se non ci fosse stata una grazia particolare forse non sarei riuscita a cambiare vita”.

Cambiare vita e nome…perché?

“Cambiare il nome di battesimo simboleggia il passaggio ad una vita nuova. Allora si poteva fare ed era consigliato. Oggi, invece, si preferisce mantenerlo per ovviare alle difficoltà burocratiche”.

Madre Veronica rinuncia quindi all’amore di un uomo per un amore più grande

“Sentivo che c’era un amore più grande, si. Sono trascorsi trentacinque anni da allora. Un tempo di ricerca del Signore”.

Perché questa grata tra di noi?

“La grata è un segno di separazione che ci permette di vivere a tempo pieno per il Signore. Se non ci fosse, se ci fosse sempre gente qui dentro, non sarebbe la stessa cosa. Non siamo viste ma possiamo portare un po’ di linfa fuori”.

Da cosa è scandito il vostro tempo all’interno delle mura?

“La regola di Santa Chiara dice di uscire per un motivo utile e necessario, come una visita medica. Altrimenti non usciamo. Preghiamo, lavoriamo l’orto, sbrighiamo le faccende di casa, confezioniamo statuette votive. Non abbiamo il tempo di annoiarci o vuoti da riempire”.

Sorride. I lineamenti del suo volto fanno fatica a distendersi in un sorriso costretti dalla fascia che incornicia quasi tutto il viso. Eppure sorride con gli occhi.

“I ragazzi che vengono a messa la domenica spesso ci chiedono se ci annoiamo. Ma davvero non ne abbiamo il tempo. I giovani oggi hanno paura, si riempiono di musica e di rumore per non sentire il vuoto dentro. Si nutrono, nutrono il corpo quattro, cinque volte al giorno, ma l’anima è decrepita. La bellezza della giovinezza è impossibile che svanisca dopo la morte. Siamo destinati a qualcosa di molto più duraturo…”

 

Ci salutiamo. Dallo spioncino osservo l’orto, una sedia di plastica bianca appoggiata al muro, il cortile. In chiesa il coro delle giovani suore sta facendo le prove. “Appartengono ad un altro ordine, si appoggiano da noi perché il loro monastero non è più agibile a causa del terremoto – continua Madre Veronica -. Tra di loro c’è una suora di appena 17 anni”.

Mi tende la mano. Un abbraccio di mani a rassicurarmi. Quasi come sapesse che fuori da lì sarebbe ricominciato il mio perenne senso di ritardo sulla vita. Diciassette anni, ho continuato a ripetermi fino a quando il suono del telefono mi ha distratta. Ho guardato il cellulare e l’ho spento. Diciassette anni.


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