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Il 25 aprile e l’Italia che deve ripensarsi, facendo i conti con la propria storia

MEMORIA - Un interessate articolo, contributo di Alessandro Del Monte, membro del coordinamento provinciale di Articolo 1- MDP

Dalla scorsa settimana vi stiamo aggiornando sulle tante iniziative per l’anniversario della Liberazione organizzate nel Fermano. Oggi diamo spazio ad una interessante e articolata riflessione di Alessandro Del Monte, membro del coordinamento provinciale di Articolo 1- MDP.

“Mentre ai primi di aprile l’esercito alleato sferra l’offensiva alle linee tedesche e dilaga nella Pianura Padana, preceduto dall’insurrezione partigiana e dall’instaurazione dell’autorità politica del CLN (Comitato Nazionale di Liberazione), tra il 25 ed il 27 aprile del 1945 le formazioni partigiane di montagna entrano a Milano, Genova e Torino. L’identità di un popolo – rimarca Del Monte – non è mai il prodotto di orchestrati artifizi, ma è il deposito storico di un patrimonio di idee, simboli, culture e tradizioni che si tramanda. Siamo persuasi vada innanzitutto riaffermato il concetto di Liberazione come quel moto di rifiuto e di ribellione organizzata al fascismo e al nazismo, sino alla lotta armata, quale dato fondamentale della storia del nostro Paese; un movimento di popolo, autodeterminato, indipendente, non soggiacente pertanto ad alcuna elargizione alleata.

Ed è proprio da tale inconfutabilità storica che il “nesso tra Resistenza, Liberazione, Democrazia riconquistata, Istituzioni democratiche e Costituzione repubblicana risulta intrinseco e consequenziale”. Se la Carta Costituzionale fu, storicamente, il prodotto di sintesi dell’impostazione culturale delle forze che animarono la Resistenza (comunisti, socialisti, cattolici e laici) ne consegue che l’antifascismo ne sia una componente essenziale, effettiva, quindi irrinunciabile. “Resistenza di popolo” ed antifascismo, dunque, come fondamenti morali, i quali, nell’eterogeneità e nell’autodeterminazione, sono stati capaci di conferire alla nostra Democrazia Repubblicana un valore permanente e programmatico.

Bene osserva Gustavo Zagrebelsky: “ogni ordinamento politico-sociale necessita di un fatto o atto che sia assunto come mito fondativo”. Ciò perché il “mito”, quale evento idealizzato nella coscienza di una collettività, assurgendo a valenza di simbolo, diviene Stella orientante del pensiero e del comportamento di un popolo; straordinaria forza capace, poggiando sulle risultanze di un’indagine critica, di condensare nella sua essenza una tale elevazione del criterio della coscienza collettiva, da suscitare nelle generazioni a venire proprio quell’universale condivisione di valori avvertiti come inviolabili. Ed è proprio nella grandezza di questo simbolo fattuale, dove si imperniano valori derivanti e condivisi, la base di una comunità organizzata, della Società Umana.

Tuttavia, qualsiasi narrazione investita di “sacralità”, qualsiasi raggio che giunga dalle profondità dell’essere e del pensiero, sebbene dotato di forza e valore, non può, non deve spegnersi o illanguidire in celebrazioni rituali: riscoprire costantemente nei princìpi della lotta d’allora i fondamenti della convivenza di oggi. Auspichiamo che la Storia della Resistenza che condusse alla Liberazione ed alla Costituzione Repubblicana possa un giorno divenire indelebile interiorizzazione collettiva, reale laboratorio permanente di idee, fulcro da cui muovere per ogni positiva forma di progresso e consolidamento democratico. Questa, a nostro avviso, sarebbe la testimonianza più alta, il modo migliore per onorare l’anniversario della Liberazione d’Italia: perché non è solo in ciò che si dice, ma anche in quello che si lascia di non detto pur facendolo venire in luce, richiamandolo in un modo che non sia solo quello dell’enunciare. Il principio generatore è la “Libertà” e la dimostrazione è in quel crinale netto ed inequivocabile tra un prima ed un dopo, tra il passato ed il futuro, tra la dittatura e la Liberazione di un popolo per opera della Resistenza. Ogni ulteriore e diversa argomentazione è storicamente fuorviante, una sorta di sovrastruttura dottrinale che allontana dalla verità. A differenza di altre grandi democrazie occidentali, la nostra identità nazionale è un fatto assai recente, la lotta partigiana, il carattere relativamente di massa che la Resistenza riuscì a imprimere contro il comune oppressore ebbe un ruolo straordinario e decisivo sia sul futuro democratico sia sulla successiva Unità nazionale.

Si esprimeva con acutezza Pier Paolo Pasolini allorché affermava: “La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano”. E sebbene l’unità politica non corrispose a una reale “unità emozionale”, pur con tutti i limiti di una vittoria che si sognò “ulteriore”: i Partigiani non solo vinsero, ma col sacrificio del sangue ci restituirono i presupposti per vivere da uomini liberi, con una Costituzione a tutela ed una forma democratica di governo. Operare la rimozione o la revisione strumentale di fonti, documenti, testimonianze, ossia disconoscere la Storia è sempre una pericolosa falsificazione e nel caso della Storia della Resistenza significa confutare lo “spirito repubblicano”, rinnegare la “norma fondamentale” conquistata, per consegnare il Patto sociale al darwinismo sociale: struggle for life and death come regola della comunità umana, la legittimazione della sopraffazione dei più forti sui più deboli. Allora quando ci troviamo al cospetto dei flussi e riflussi della Storia, delle prevaricazioni inumane dell’economia finanziaria, soverchiati dalle tendenze ultra-conservatrici del neo-liberismo, sopraffatti dal dis-valore del lavoro e di chi vorrebbe privarlo di ogni diritto, umiliati da una scuola precarizzata, inermi difronte alla svalutazione della cultura e alla sua finalizzazione, dinanzi a chi vorrebbe farci complici dello sfruttamento ambientale, alla privatizzazione dei diritti sanitari, alla privazione di quelli civili, di quanti vorrebbero minare la pace, allorquando la politica indebolita o corresponsabile non dovesse abbracciare un’azione positiva, su chi confidare per intraprendere la direzione di una lotta? Sulla Costituzione della repubblica Italiana!

È del resto bastevole meditare, nei Princìpi fondamentali della Carta, sull’articolo 1 e sull’articolo 3 per cogliere la potenza e la modernità di un siffatto ordinamento. Per cui, nel simbolo che si fa prassi dialettica, nel suo imperituro essere, la Costituzione diviene il massimo custode delle nostre vite ed il più potente strumento di lotta riconosciuto, nume tutelare di un popolo e avallo contro ogni forma di discriminazione e sopruso. Ecco perché concordiamo con chi ha osservato che proprio in quel carattere di programmaticità, nel richiamo di chi non intende chinare la testa, di coloro che non si rassegnano all’ingiustizia, all’arbitrio, alle soperchierie del potere demagogico, antidemocratico o alle lusinghe del populismo, risieda la forza di opposizione e di contestazione della Carta costituzionale.

Non è un caso che sin dall’inizio le influenti forze contrarie tentarono di ostacolare l’attuazione della Costituzione espressione della Resistenza con l’intento di neutralizzarne l’ispirazione antiautoritaria che l’animava al fine di sostituirlo, una volta indebolito l’impianto democratico e le istituzioni rappresentative, con un sistema di potere accentratore in ambito di decisioni e comando. Il revisionismo, la retorica e la demagogia, sinanche la popolocrazia appartengono alla medesima famiglia: quella della propaganda. Coloro i quali si protendono in audaci esegesi esulanti una rigorosa metodologia storiografica operano inevitabilmente in malafede o si abbandonano a retoriche superficialità. Probabilmente non sanno cosa significhi la guerra (come avvenne a Marzabotto, dove i tedeschi comandati dall’ufficiale tedesco delle Waffen-SS, Walter Reder, nel tentativo di piegare una formazione partigiana operante in quei luoghi, massacrarono 1830 civili, comprendenti donne, bambini, vecchi ed esseri ancora nel ventre della madre); probabilmente ignorano cosa significhi la fame, i massacri, i lutti; probabilmente disconoscono l’arbitrio delle camice nere sulla vita dei connazionali; probabilmente taluni nel perpetuarsi di una romanzesca narrazione vagheggiano, nel 2017 e nella culla della civiltà occidentale, il ventennio fascista come un idealizzato mondo di “ordine” e “giustizia”, di “italica virilità” e pregno di valori smarriti: “La chiave sulla porta”, “le pensioni”, “l’onestà”, “l’efficienza”, e quant’altro; e non – oltre la guerra e la shoah! – l’esasperata corruzione di regime, l’autarchia che condusse il paese alla disfatta economica, l’OVRA con le sue estorte confessioni, l’incitazione alla delazione che opponeva il vicino al vicino, la giustizia sommaria, le fucilazioni, il carcere, il confino e quant’altro.

Talaltri invece di osservare un canone epistemologico della ricerca storica, al fine di delegittimare la Resistenza, sminuire la Liberazione, mormorare sulla Costituzione, sostenere l’affrancamento di certune identità politiche, hanno più volte tentato di evidenziare episodi deplorevoli, e ve ne furono, di cui la Resistenza si sarebbe resa responsabile, come le vendette, le rese dei conti, anche seguenti il 25 aprile, e, non privo di generiche strumentalizzazioni, le attribuzioni ai Partigiani per il doloroso e tragico esodo degli Italiani dalle terre istriane, ovvero l’orrore delle Foibe. La guerra scatena sempre atrocità terribili, soprattutto le guerre con una matrice civile, ma come non far ricadere le principali responsabilità di tutti i crimini sui guerrafondai, sugli aggressori, sui servi di regime, cioè sui nazifascisti? Senza scusanti o timore della verità, vorremmo si rammentasse quali atrocità, vessazioni, umiliazioni il popolo italiano avesse subito per anni da parte degli sgherri del regime; e circa gli eccidi ai danni della popolazione italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia, fatto che va primariamente inserito all’interno di un fenomeno più ampio dai connotati etnici e politici che si saldano con quelli sociali, come si può prescindere dall’invasione della Jugoslavia da parte dei nazifascisti e dai crimini spaventosi perpetrati sia dai famigerati “ustascia” (fascisti croati) agli ordini del dittatore Ante Pavelić, amico personale di Mussolini, sia dalle camice nere italiane che si distinsero per la loro ferocia perpetrando ogni tipo di violenza (in ventinove mesi di occupazione italiana nella sola “provincia” di Lubiana, vennero fucilati circa 5.000 civili, più 200 circa bruciati o massacrati in modi diversi; circa 900 i partigiani catturati e fucilati. 7.000 le persone, soprattutto donne e bambini, morte nei campi di concentramento. Complessivamente oltre 13.000 persone, su 340.000 abitanti, il 2,6% della popolazione)? Come avrebbe potuto il Popolo slavo dimenticare? Nessun crimine deve essere giustificato e tutte le vittime innocenti devono essere onorate ma la storia non può essere manipolata per ragioni ideologiche o di opportunità politica. Vi deve essere una pietà per i morti, tutti i morti, eppure le “ragioni” per cui gli italiani son morti vanno distinte, poiché v’è una differenza tra coloro che hanno optato per la libertà e chi ha continuato invece a sostenere l’oppressore e la dittatura.

Bobbio diceva che “l’equidistanza tra fascismo e comunismo ha condotto a un’equidistanza abominevole, quella tra fascismo e antifascismo”. Stravolgere la verità oltre che disonorare la memoria conduce ad una alterazione dei fatti ed una Storia deformata non può impartire la sua giusta lezione. L’Italia a differenza del popolo tedesco e francese, che ebbero rispettivamente il Tribunale internazionale di Norimberga e le condanne sul Governo di Vichy, non ha mai davvero fatto i conti con la propria storia: l’assenza di una concreta rielaborazione collettiva su quanto avvenne, spiega in buona parte il perpetuarsi di quella in-cosciente zona grigia ed il sedimentarsi di atteggiamenti indulgenti, quanto non compiacenti, nei confronti della barbarie nazifascista. Nessun francese, che sia di sinistra o di destra, mai neppur ipotizzerebbe di mettere in discussione la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, cosiccome non v’è statunitense, sia esso democratico o repubblicano, che avanzerebbe di un sol passo in disarmonia con un suo connazionale sulla Costituzione degli Stati Uniti d’America del 1787.

Vi fu anche una “Resistenza Taciuta, o dimenticata delle donne che non furono quelle mere comprimarie limitate al rango di vivandiere o di staffette portaordini che tanta manualistica ci ha consegnato. Le donne non solo furono “Partigiane combattenti”, ma molte ebbero responsabilità di alto livello, per non parlare del loro apporto nella gestione organizzativa del Movimento di Liberazione. Donne operarono, senza diversificazioni circa incarichi e compiti, nelle SAP, nei GAP e nei GDD: “Aperti a tutte le donne di ogni ceto sociale e di ogni fede politica e religiosa, che vogliano partecipare all’opera di liberazione della patria e lottare per la propria emancipazione”. È ora che le Donne sfilino insieme ai Partigiani. L’idea stessa di democrazia è sempre incompiuta, sempre da conquistare! La “rivoluzione partigiana” e la Liberazione sono la coscienza che la democrazia si può ri-conquistare e che dunque vale sempre la pena lottare e stimare la vita al suo giusto valore, giacché solo nell’imperfezione della democrazia e nella sua libertà si può costruire un futuro per i Paesi ed i Popoli. L’Italia “dell’avvenire” deve assolutamente sapere cosa accadde tra il 1919 e l’aprile del 1945. Ci si sta parando davanti un periodo storico che già si manifesta in tutta la sua drammaticità, tempi oscuri s’annunciano in ogni dove, sia per il contesto sociale sia per quello economico sia per le istituzioni democratiche. V’è la necessità, oggi come non mai da quel “tristo tempo”, di “ripensare noi stessi a partire dalla nostra storia e dalla nostra collocazione nel mondo”.


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