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“Quando cominciai a far slegare i matti”: via Zeppilli nel ricordo di Ernesto Buondonno

FERMO - Intervistato dal giornalista Rai Maurizio Blasi, lo psichiatra ha ripercorso alcuni dei momenti più significativi della storia dell'ex manicomio, ricordando anche la figura di Basaglia

di Andrea Braconi

Da Napoli a Fermo, per caso. Diventando, grazie ad un innato desiderio di conoscenza dell’uomo, un punto di riferimento della psichiatria (“Quella vicina agli esseri umani”) ma soprattutto uno che non si è mai piegato a schemi e violenze. Impossibile, in poche righe, ripercorrere l’intera vita di Ernesto Buondonno, psichiatra di origini campane, che da ArtAsylum ha festeggiato i suoi 92 anni davanti a tanti amici e curiosi, accorsi per ascoltare la sua chiacchierata/intervista con il giornalista Rai Maurizio Blasi circondati dalle foto di Alessandro Miola sull’ex manicomio in via Zeppilli.

É partito dalla sua gioventù, da quel periodo fascista e dalla “pochezza dei personaggi che mi spinse a diventare anarchico e materialista”. Poi l’università: “Volevo conoscere l’uomo nella sua realtà materiale, allargando l’orizzonte alla filosofia. Guardavo già l’uomo nel suo complesso, spirito e corpo. Così mi interessai agli studi psichiatrici e studiai i malati sotto il profilo fisico e biochimico. Vivendo però a contatto con loro mi resi conto di quanto dolore ci fosse”.

Nel 1956 il suo sguardo rimane colpito dalla bellezza del centro storico di Fermo. “Mi meravigliai e quando per la prima volta scesi per via Perpenti vidi l’aspetto del manicomio. Entrai, corridoi e stanze ingresso erano bellissimi, ma quando il direttore mi accompagnò nei reparti vidi ambienti indecenti. C’era un reparto di donne anziane tutte a letto, sembravano cadaveri: fu un’immagine toccante. Poi il reparto agitati, con più di 60 malati legati a letto, molti dei quali avevano piaghe alle mani e ai piedi”.

Un impatto che per lo stesso Buondonno ha segnato una svolta. “Incominciai a far sciogliere gli ammalati, fu un procedimento graduale. Oggi voglio ringraziare alcuni infermieri dell’epoca, c’era un gruppo che non accettava quella condizione e diceva ‘questi ammalati sono proletari come noi, quindi doppiamente ci dobbiamo interessare della loro condizione. Lo staff dirigenziale faceva resistenza persino sulla frutta, che non c’era nelle tabelle perché considerato un alimento speciale per alcuni malati. Un giorno un assistente mi disse di essere preoccupato per le domande insistenti del direttore. Così a quest’ultimo risposi che davo la frutta agli ammalati perché a loro piaceva, come piaceva a noi che potevamo mangiarla liberamente”.

Contemporaneamente, in altri ospedali d’Italia si andavano sviluppando dinamiche simili. “Io cercai a Fermo di fare gruppo e di dare a questa forma di ribellione una struttura politicamente più efficace, grazie anche all’aiuto di persone come Marcello Eriberti e Corrado Marziali”. Una rottura rispetto a quello che si era consolidato per anni, che portò addirittura un infermiere ad accompagnare un malato sulla spiaggia di Porto San Giorgio di propria iniziativa (“Con me come complice”).

A metà degli anni ’70 il manicomio di Fermo (che ospitava tra le 500 e le 600 persone, ma che dopo il terremoto di Ancona toccò le 700 unità) si apre e la città inizia a conoscerlo. E il primo maggio 1974 si spalancano i cancelli. “Preparammo un camion come palcoscenico, mettemmo un albero della cuccagna e facemmo venire dei giovani”. “Giovani che sentivano un odore di nuovo” ha rimarcato Blasi. “Sì, e con loro festeggiamo fino a notte inoltrata”.

Impossibile fa riemerge tutti i momenti più significativi, ma nel raccontare l’irruzione di 12 ragazze a Buondonno cambia l’intensità della voce. “L’apparato dirigenziale iniziò a dire che c’era qualcosa che non andava e che i matti era meglio non slegarli. Così un giorno si tenne un’assemblea dei contrari all’apertura del manicomio, voluta per dimostrare che noi eravamo una minoranza di esaltati, di matti più dei matti. Ad un certo punto sentimmo bussare alla finestra e 12 ragazze entrarono, fu una sorta di presa del palazzo d’inverno. Qualcuno provò ad alzare le mani, ma io dissi di non toccarle altrimenti li avrei denunciati. Riuscimmo a calmare le acque e l’assemblea finì lì. Fui felice perché la parte più bella di Fermo era con noi e pensai che se i giovani erano con noi, noi non potevamo perdere”.

Ma chi erano i suoi matti? “Il manicomio è un ulteriore meccanismo di danno e di sofferenza e la maggioranza di loro erano contadini, operai, di ogni estrazione sociale e non c’erano persone ricche. Ricordo Ripetti, uno dei primi ad uscire, che girava per via Zeppilli e giocava con i ragazzini”.

Ricorda anche l’arrivo della Legge Basaglia (“Non era detto che vinta la battaglia si sarebbe vinta la guerra, ma avevamo dimostrato che si poteva praticare la psichiatria in un altro modo, più umano e più comprensivo, e che gli ammalati potevano uscire”), l’incontro con lo stesso psichiatra (“Con mio figlio Peppino andai a Trieste e lì Basaglia mi colpì molto; vidi gli ammalati liberi di circolare e quella fu la prima lezione, con le assemblee aperte che poi facemmo anche a Fermo”) e non rimuove un’altra terribile violenza: quella di impedire ai malati di comunicare. “Le loro lettere, come quelle che venivano inviate dai familiari, erano sottoposte a censura. Alcuni dei malati lanciavano bigliettini dalle finestre per lamentarsi di qualcosa o per comunicare con i parenti, perché lì fuori si teneva una fiera degli animali”.

Infine, i rimorsi portati dentro per tanti anni. “Uno è di essermi accorto molto tardi della sofferenza delle donne a cui venivano tagliati o rasati i capelli, era una violenza inaudita. Poi ricordo che non c’era lo specchio, che gli ammalati avevano dimenticato la propria faccia e così alcuni cercavano di specchiarsi sui vetri”. Rimorsi che, però, vengono sovrastati dalla soddisfazione di aver lavorato con la consapevolezza che “una psichiatria con amore” fosse ed è ancora oggi possibile.

 


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