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Gaia Dellisanti:“A mia figlia dico sporcati nel fango, provaci, non trasformarti per compiacere”

La rubrica "Donna" questa settimana accoglie l'attrice sangiorgese di adozione, ferrarese di nascita. Ventitré anni di teatro, tre film con Pupi Avati, autrice, femminista convinta, un po’ timida, un po’ presuntuosa.

 

di Claudia Mazzaferro

Questo è uno di quei casi in cui non sono sicura che le parole possano bastare a descrivere una persona per quello che realmente è, per ciò che trasmette. Sostituire il guizzo negli occhi, la voce che riempie lo spazio, gli occhi che si fanno lucidi, la grinta contagiosa, l’energia. Gaia Dellisanti, attrice sangiorgese di adozione, ferrarese di nascita. Ventitré anni di teatro, tre film con Pupi Avati, autrice, femminista convinta, un po’ timida, un po’ presuntuosa. Mi racconta la sua vita come un fiume in piena, mi sorprende scombinando le mie regole e imponendo le sue. Fino a che mi arrendo ad ascoltare rapita come il mestiere dell’attore diventi un modo per affrontare l’imponderabile nella vita di tutti i giorni.

 

Attrice professionista, sognatrice, mamma, tutto per scelta.

La mia. Sempre. Ho iniziato a sedici anni a Fermo al laboratorio “La Camera Chiara” con Luigi Maria Musati, che all’epoca era direttore dell’Accademia di Arte Drammatica a Roma. Poi, a Macerata mentre frequentavo l’università, sono entrata a far parte di altre compagnie teatrali. Ho anche fondato una compagnia indipendente, che credo esista ancora, per dare la possibilità a tutti di vivere questo mestiere nella più totale autonomia. Una condizione irripetibile al di fuori dell’ambiente accademico. Avevo chiamato anche un regista molto bravo, Roberto Graziosi da Roma, preparavamo insieme gli spettacoli e giravamo per le Marche. Il secondo che abbiamo rappresentato insieme era “Sogno di una notte di mezza estate”, una delle poche non drammatiche di Shakespeare. A me toccò il ruolo di Ermia, una delle figure più noiose nella storia del teatro. Me lo assegnò di proposito, disse, perché ero l’unica che potesse interpretare qualcosa di completamente opposto alla propria personalità. Lì ho capito che era la mia strada.

 

Una strada che ancora percorri felicemente.

Dopo l’università e una bellissima esperienza a Malta, sono tornata a Porto San Giorgio nella compagnia di Sergio Soldani. Dopo un paio di anni di apprendistato, in cui mi ha insegnato ad insegnare la dizione soprattutto perché la maggior parte degli attori conosce la dizione per esperienza e non per regole apprese studiando, sono riuscita a coniugare le due cose che più amavo fare: insegnare e recitare. Sicuramente una condizione difficile dal punto di vista economico, ma di pienezza completa dal punto di vista personale. Con Sergio abbiamo rappresentato diversi spettacoli e fondato una scuola di recitazione, a Porto San Giorgio, per bambini e adulti, un omaggio ad Acruto Vitali, poeta sangiorgese. Contemporaneamente ho un’altra scuola, Lo.co.s, a Porto Sant’Elpidio, la cui particolarità è che le rappresentazioni le scriviamo noi, siamo noi gli autori. Il 23 marzo prossimo, a questo proposito, saremo al teatro di Porto San Giorgio con il nostro ultimo lavoro, Donnette.

 

Una passione, una missione, una terapia. Perché il teatro?

Mia madre chiamò Musati preoccupata della mia timidezza. Del resto, per propria ammissione, anche Mastroianni, Claudia Cardinale, hanno rivelato che fu proprio la timidezza il motore. Il 90% degli attori recita per contrastare la timidezza. Che in alcuni ambiti resta, nonostante l’esperienza. Posso dire che 23 anni di teatro mi sono serviti a gestire l’imponderabile della vita. Improvviso un personaggio, recito. Ho sempre pensato che l’attore avesse una doppia personalità. In realtà l’attore vive se stesso sul palco, esprime realmente se stesso quando recita, il resto, la vita di tutti i giorni, è una pausa tra una rappresentazione e l’altra.

 

Il ruolo che ti è piaciuto di più.

Paradossalmente Ermia, che appunto è la cosa più distante da me, ma il ruolo che sono riuscita ad interpretare meglio. Lei si lagnava, a me non importa se la gente non mi ama.

 

Ci sono grandi nomi nel tuo curriculum.

Ho avuto il piacere di lavorare con Pupi Avati, a tre dei suoi film. A Il cuore grande delle ragazze, al fianco di Sydne Rome, un mito della mia infanzia. Con Scamarcio e Sharon Stone in Un ragazzo d’oro, ero la segretaria del notaio. Il terzo, per la televisione, con Laura Morante, Il sole negli occhi. Sono sempre stata molto fortunata perché presente nelle scene con gli attori protagonisti. Sono esperienze fondamentali, avere la possibilità di apprendere, di rubare l’esperienza, di arricchirsi. In Italia ci sono più scrittori che lettori, tutti improvvisano, si inventano un ruolo dall’oggi al domani. Nelle grandi produzioni puoi capire qual è la differenza tra chi è attore per lavoro e chi per diletto. L’ultima esperienza è stata proprio con la Morante, un mese dopo ho scoperto di essere incinta di Maria.

 

Maria, appunto. Cosa vorresti insegnarle direttamente dal palcoscenico della tua vita?

A chiedere, a non aver paura di chiedere. Io ho sempre avuto paura a farlo, paura in generale. Vorrei che fosse sempre libera di fare e di essere, soprattutto ciò che le convenzioni vietano. Le vorrei dire “fai qualunque cosa, sporcati nel fango, provaci”. L’unico limite deve essere la civile convivenza. Non vorrei mai si trasformasse per compiacere. Vorrei fosse sempre felice.

 

Quando parli di teatro l’aria accanto a noi vibra, la sento muoversi. Mi chiedo perché non te ne sei mai andata da qui per crescere professionalmente.

L’amore per le Marche, per questa terra, mi ha imposto di rimanere per diffondere cultura. Forse la mia è presunzione, forse qualcuno migliore di me avrebbe potuto farlo, ma avrebbe avuto la mia stessa costanza? Sono rimasta qui per far crescere i miei allievi.

 

Nulla di incompiuto?

Tutto ciò che non ho ancora fatto. Riferendomi al passato, forse avrei voluto finire l’università ma poi non avrei potuto vivere il teatro così pienamente. Quello che amo di questo lavoro e in fondo è ciò che applico alla mia vita, è il continuo divenire. Spesso e volentieri quello che scrivo è all’impronta, i personaggi prendono vita da sé e lo stesso accade nella mia vita. Non c’è un punto di arrivo e il segreto è rubare l’esperienza.

 

La figura della donna nel teatro. Ti adatti al ruolo o tenti di stravolgerlo?

Assolutamente ancora stereotipata. Del resto rappresentiamo cose “vecchie” anche se è in corso un’evoluzione che attualizza le storie. Goldoni scriveva quando non c’era nulla da fare, a teatro uno andava per fare tutto tranne che intrattenersi e guardare lo spettacolo. La donna era procace e sottomessa, io nelle mie rappresentazioni tento di sovvertire il ruolo così come è stato sempre concepito. La mia è una donna professionista, fredda a tratti, consapevole, molto vicina alla mentalità maschile. Cerco di raccontare tutto ciò che di una donna è sconosciuto. E se non è bella, meglio. L’essere umano è portato per sua natura a cercare la bellezza, vogliamo sempre vedere il bello ma la bellezza toglie comprensione a ciò che stai vedendo per cui l’attrice brava ma non bella la apprezzi di più.

 

Il femminismo secondo Gaia.

Gli uomini, a teatro, godono di maggiore credito, vengono ritenuti più affidabili. Insensati retaggi culturali che ci portiamo dietro, fardelli inutili. Quante attrici in passato si sono trovate a scegliere tra la carriera e la professione? Lo trovo inconcepibile. Per quale motivo avrei dovuto rinunciare a mia figlia? Quindi femminista perché, non solo a teatro, la donna è qualcosa di più di uno stereotipo.

 

Domani a Hollywood o a teatro. Al fianco di chi?

Strehler, De Filippo – non tanto Edoardo quanto Peppino – Truffaut, visionario e surreale come me, e ancora Risi, Verdone, Spielberg, Sean Penn… posso puntare in alto, giusto?

 


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