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Dal mare al piatto: come le plastiche entrano nel nostro pesce

Uno studio dell’Università di Ghent (Belgio) ha calcolato che i consumatori di molluschi ingeriscono più di 11.000 micro frammenti di plastica ogni anno. Il corpo umano ne trattiene meno dell’1% ma queste piccole particelle hanno la capacità di accumularsi comunque nell’organismo nel corso del tempo. Essendo voraci consumatori di molluschi, i belgi sono considerati molto esposti a questo problema che riguarda comunque tutti gli europei e non solo: pesci e molluschi contaminati sono stati trovati anche in America, Canada, Brasile, Cina… Le domande che ci poniamo sono molte e le rivolgiamo al dott. Luca Sacchini, medico veterinario specializzato in ‘Igiene ed Ispezione degli alimenti’.

 

Stiamo veramente ingerendo plastiche attraverso gli alimenti marini? Come ci siamo arrivati?

Più di un secolo fa, il belga Leo Baekeland inventò la bakelite dando il via ad un’era di plastiche colorate: fino ad allora venivano usati derivati di prodotti naturali con grandi sforzi e costi di produzione come lo shellac (dall’esoscheletro di insetti) o la gomma. Il rimpiazzo sintetico di questi prodotti aveva un enorme potenziale commerciale: la bakelite era leggera, economica, malleabile e sicura ma la più grande caratteristica di questo materiale e di quelli che seguirono era sicuramente la sua durata. Lungo la prima metà del ventesimo secolo numerose innovazioni come il polistirene, poliestere, PVC, nylon divennero parte inestricabile della nostra vita. Infine, nel 1950 arrivò il flagello del mare: il sacchetto usa-e-getta di polietilene. In quegli anni, la produzione globale annuale di plastica raggiunse 5 milioni di tonnellate. Nel 2014 divennero 311, oltre il 40% solo per confezionamenti a uso singolo. Oggi, la durata della plastica non sembra più una benedizione. Uno studio di Science Magazine del 2015 ha stimato che ogni anno più di 8 milioni di tonnellate di plastica vengono riversate nel mare: di questo passo, nel 2050 il volume totale delle plastiche avrà superato quello del pesce. La caratteristica più preoccupante non sono però le bottiglie, i sacchetti e il polistirolo che ritroviamo nel mare ma le numerose piccole particelle invisibili. Nel 1999 l’oceanografo Charles Moore misurò il peso di queste microplastiche: erano sei volte più numerose dello stesso plankton. Convenzionalmente i rifiuti plastici sono stati suddivisi in quattro classi dimensionali (Eriksen et al., 2014): le macroplastiche (>200 mm), le mesoplastiche ( 4,76-200 mm), le microplastiche di medie dimensioni (1,01-4,75 mm), le microplastiche più piccole (0,33-1,00 mm).

A queste classi categorie è necessario aggiungere le nanoplastiche, le cui ridottissime dimensioni rendono tuttavia impossibile il loro campionamento tramite metodi tradizionali. Quelle più preoccupanti sono relative ai confezionamenti per uso singolo (che rappresentano più di un terzo di quelle prodotte). Molte plastiche non biodegradano, ma fotodegradano: l’esposizione ai raggi UV unita alla degradazione chimica e il movimento ondoso, alla fine, trasformano quelle bottiglie e quei sacchetti di plastica in piccolissimi frammenti da cui percolano numerosi additivi chimici tossici come PCB, pesticidi, ritardanti di fiamma. Queste particelle appaiono come cibo per alcune specie ittiche e recenti ricerche hanno dimostrato che ne hanno anche l’odore. Le alghe, alimento prescelto di molti pesci e molluschi, emettono un forte odore dato dal Dimetilsolfuro (DMS), sostanza che causa un riflesso pavloviano in specie in cerca di cibo. Plastiche e microplastiche rappresentano la piattaforma perfetta sulla quale le alghe attecchiscono e prosperano, trascinando gli organismi marini in una vera e propria trappola olfattiva. Nel 2015 è stato registrato il primo video che dimostra come lo zooplankton assimili le microplastiche: dato che questi microorganismi rappresentano la base della catena alimentare marina, le implicazioni sono scioccanti ma una grande varietà di pesci e molluschi di cui ci nutriamo consumano plastiche anche direttamente.

 

Bisogna anche ricordare che, nonostante molte plastiche vengano ritrovate nello stomaco dei pesci, e quindi rimosse con l’eviscerazione, le microplastiche dell’ordine di pochi nanometri vengono assimilate e raggiungono le carni (senza dimenticare che ingeriamo i piccoli pesci e i molluschi interi). Grande preoccupazione destano anche tutte le sostanze chimiche tossiche derivate da questi materiali, anch’esse infatti possono concentrarsi nei tessuti delle specie marine commerciali. Lo scorso anno l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) ha richiesto una ricerca urgente sull’argomento, citando la sempre più crescente preoccupazione per la salute umana e la sicurezza alimentare dato il potenziale inquinamento da microplastiche nel tessuto edibile di pesci e molluschi commerciali. Sicuramente, dobbiamo tenere conto delle quantità assimilate di queste sostanze: un essere umano dovrebbe ingerire più di 10.000 molluschi all’anno per raggiungere dosi tossiche di microplastiche, numero esagerato anche per un paese come l’Italia, dove il consumo di frutti di mare è piuttosto comune. Quello che però preoccupa è che la quantità di plastiche nei mari continua a crescere: tra 10 o 20 anni anni la situazione potrebbe peggiorare drasticamente. Nel suo report del 2014, la FAO ha illustrato quanto siamo dipendenti dalle forme di vita marine come fonte di proteine: una stima del 10 -12 % della popolazione mondiale fa affidamento sui prodotti della pesca e dell’acquacoltura per il suo sostentamento. Il consumo di pesce pro capite è aumentato da circa 10 kg negli anni ’60 a più di 19 kg nel 2012 e la produzione di pesce e frutti di mare sta crescendo ad un tasso del 3, 2 % , due volte il tasso di crescita della popolazione mondiale. In altre parole, la richiesta dei prodotti del mare sta crescendo e contemporaneamente la sua futura sostenibilità è a rischio.

 

C’è qualcosa che possiamo fare?

 

  1. Rinunciare alla nostra dipendenza dalle plastiche usa-e-getta.
  2. Utilizzare indumenti costituiti da fibre naturali e lavare a basse temperature quelli contenenti percentuali di poliestere o di altre fibre sintetiche per evitare la perdita di fibre tessili nei lavaggi dei capi di abbigliamento. In media un normale lavaggio in lavatrice genera oltre 1900 microplastiche per capo d’abbigliamento (il che corrisponde ad oltre 100 fibre per litro d’acqua per un lavaggio di tutti capi), circa il 180% in più delle fibre rilasciate da abbigliamento in lana.
  3. Evitare il più possibile l’impiego degli strumenti da pesca in plastica.
  4. Utilizzare prodotti naturali per la cosmesi; ad esempio effettuare lo scrub facciale con mandorle tritate, farina d’avena e pomice anziché con microbeads e frammenti spigolosi di polietilene.
  5. Segnalare e rimuovere dal mercato giocattoli e articoli di puericultura, spesso maneggiati o masticati dai bambini, che contengano sostanza tossiche (ftalati) superiori allo 0,1% (Dir.2005/84/CE).
  6. Promuovere e finanziare la ricerca sulle bioplastiche (plastica biodegradabile in quanto derivante da materie prime vegetali il cui tempo di decomposizione è di qualche mese in compostaggio) utilizzando prodotti di scarto come gusci di cozze e di uova.

 

Il dott. Luca Sacchini, medico veterinario specializzato in ‘Igiene ed Ispezione degli alimenti’ riceve per appuntamento al n. 328 8487029

 

Tartaruga marina incastrata in un sacco di plastica e salvata da due pescatori sulla costa fermana

 

Un momento delle fasi di liberazione della tartaruga dalla plastica

Articolo promoredazionale

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