Black Panther: è fantastico non semplicemente per quello che è. È fantastico per quello che dice.

di Giuseppe Di Stefano

In questi giorni è uscito in oltre 450 sale cinematografiche italiane il nuovo film prodotto da Marvel Studios e distribuito da Walt Disney: Black Panther. Black Panther è un personaggio creato da Jack Kirby e Stan Lee nel 1966 che, a differenza dei suoi colleghi supereroi, offre più che una semplice storia: lui offre una leggenda che vede il potere nelle mani di persone con la pelle marrone, parla dell’Africa, e riscrive la storia creando una monarchia “nera” che governa il paese più intelligente e potente nel mondo.

Attraverso il tumulto interiore del protagonista – combattuto tra la fedeltà alla sua gente, l’impegno a sostenere la tradizione del paese e il suo codice morale personale – il regista Coogler e il suo co-sceneggiatore Joe Robert Cole sono in grado di esaminare l’identità di questo personaggio in un modo che gli altri film della Marvel non avevano mai fatto.

Dopo la morte di suo padre, il re T’Chaka (John Kani), durante l’attacco alle Nazioni Unite in Capitan America: Civil War, T’Challa (Chadwick Boseman) diviene il legittimo re della fittizia nazione africana di Wakanda, il paese più potente e tecnologicamente avanzato nel mondo. Ma con questo grande potere arriva anche una serie di grandi sfide – o meglio, una grande sfida, dalla quale scaturiranno tutte le altre che si troverà ad affrontare.

Al centro di ogni decisione, ogni incontro, ogni azione, è la responsabilità di T’Challa nei confronti del suo popolo. Il suo timore è che il Wakanda possa essere rivelato per il ricco paradiso che è veramente – il mondo occidentale crede che sia un povero paese del terzo mondo – attirando avidità e violenza dall’esterno. Allo stesso tempo, però, sta diventando più consapevole del fatto che il mondo lotti ogni giorno contro i mali della povertà, dell’ingiustizia e della disuguaglianza – problemi che il Wakanda ha ampiamente risolto e potrebbe contribuire a risolvere altrove. Di fronte a questa sfida morale, T’Challa deve capire se questo grande e potente paese può veramente essere tale se non aiuta gli altri.

Una delle migliori risorse che può vantare questo film è il suo cattivo: Killmonger (Michael B. Jordan). A differenza di tanti altri villain dell’universo Marvel, la sua motivazione e il suo fine hanno un senso e un sentimento radicati nel mondo reale. Egli non vuole far saltare in aria un pianeta, vuole una restituzione violenta per la sofferenza e l’oppressione inflitte a lui e a coloro che condividono il colore della sua pelle. Anche se non si è d’accordo con le sue opinioni o tattiche, è facile capire il suo risentimento verso T’Challa, verso Wakanda, e verso il sistema che vuole far implodere. Si arriva, nel corso della pellicola, quasi a potersi relazionare con Killmonger quando il film si avventura su un piano più politico, personale e introspettivo rispetto ai film dell’universo Marvel che lo hanno preceduto. Black Panther non ammonisce apertamente la rabbia e il risentimento dell’antagonista, soffermandosi invece sull’idea che non esiste una soluzione facile per il dolore che egli prova.

Il fatto che il film di Coogler rifletta su idee di razza, di eroismo e di responsabilità non significa però che Black Panther sia contrario al divertimento. Particolarmente degna di nota è una scena d’azione in Corea del Sud, tra le migliori che la Marvel abbia mai realizzato, dove si passa da una classica sparatoria in un club sotterraneo ad un inseguimento che sfida la gravità a colpi di artigli e lance retrattili.

Black Panther racconta una storia che abbaglia, che spinge il suo pubblico a sognare un mondo non frenato da una realtà soffocante, invitandolo ad immaginare sé stessi come re, regine, guerrieri ed eroi, velatamente suggerendo che tutto è possibile per chiunque e che anche da un posto qualunque possono venire delle leggende.


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