di Andrea Braconi
La piazza centrale di Servigliano è quasi vuota, avvolta soltanto dalla voce di qualche turista, mentre Don Franco Monterubbianesi inizia la celebrazione della santa messa per i suoi 62 anni di sacerdozio. Fuori dalla Collegiata di San Marco il vento solleva le bandiere dei rioni, mentre la città dal primo pomeriggio si è riversata al campo giochi, intenta a celebrare la Giostra dell’Anello per la 50a edizione del Torneo cavalleresco di Castel Clementino. Un connubio di storia e spiritualità, che rende unica la domenica del borgo della media valle del Tenna.
Dall’altare il fondatore della Comunità di Capodarco spiega come questa sia “una messa della riconciliazione, con la fede e nell’unità possibile tra le buone volontà che devono uscire dall’ottica di una divisione”. Un messaggio diretto ed inequivocabile, come nello stile di questo 87enne sacerdote.
“Qual è stato il senso dei miei 62 anni? – si domanda – Ho scoperto nella mia storia il mondo della disabilità, diventai barelliere a Loreto a 18 anni e quella fu l’incontro concreto con il Signore”.
Oggi Don Franco vede una società sempre più in crisi. “Ma io vivrò ancora con quelli che vorranno seguire la mia idealità – rimarca -. Dobbiamo ritrovare la purezza della fede, su cui anch’io posso dire di non essere stato ascoltato. È un discorso duro, noi riduciamo la fede nell’aspetto religioso, ma dobbiamo sentirci inesperti, sempre pronti a capire la profondità del vivere cristiano. Non possiamo ridurre la fede alla religione: così non la trasmettiamo ai giovani, dobbiamo invece dedicarci a questo Cristo presente nella storia. Perché non bisogna cercare il regno di Dio nell’aldilà, ma qui, come abbiamo fatto a Capodarco progettando il futuro insieme agli ultimi”.
Un suo cavallo di battaglia è sempre stato il Dopo di noi, una legge che però “rischia di non essere applicata, le famiglie sono sole e disperate”. I giovani disabili,invece, hanno bisogno di emanciparsi già prima “per avere quella autonomia che predichiamo da sempre”. Autonomie ed esperienze che vanno praticate nel territorio. “E in questo ragionamento rientrano anche i migranti: se attraversano il deserto e poi il mare, sapendo di rischiare di morire, è perché hanno la speranza, quella che Dio semina nei cuori dei più poveri. Noi abbiamo bisogno della loro speranza, dobbiamo accoglierli e fare patrimonio di questa forza. Dobbiamo identificarci nella sofferenza, nella lotta, non nella superficialità del dividerci, per realizzare con la forza della resurrezione il cambiamento di questa società”.
Giovani che sempre di più hanno bisogno di testimoni. “Servono persone che li guidino, che si sappiano unire tra loro uscendo da logiche individualistiche. Per questo vi chiedo aiuto quando partiremo con la fondazione che porterà il mio nome. Dobbiamo unire le persone in difficoltà e l’impegno che c’è nelle nostre terre. Pregate, quindi, affinché io possa dare sempre questa testimonianza, insieme a tutti voi”.
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