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“Salviamo l’Africa con gli africani”:
dal Ghana i racconti dei Teatri senza frontiere

ESPERIENZE - Prima puntata del racconto di Marco Renzi, ideatore e promotore del progetto: "Tutte le mattine partenza per i villaggi del Volta Region dove faremo il nostro spettacolo e al pomeriggio laboratorio con i ragazzi della missione, con i quali allestiremo uno spettacolo finale"

 

Come annunciato la scorsa settimana (LEGGI QUI), “Teatri senza frontiere” ha ripreso la strada per il continente africano, precisamente in Ghana. A raccontarci questa nuova esperienza sarà Marco Renzi, ideatore e promotore del progetto. Buona lettura.

“Tornare in Africa è sempre un’emozione vivace e colorata. Dopo due anni rimettiamo piede in Ghana, l’aeroporto di Accra ha aperto un nuovo avveniristico terminal, iper lucido, asettico, occidentale, qualcosa che depista completamente da ciò che si aprirà all’esterno dell’edificio. Molti dell’equipe di “Teatri Senza Frontiere” sono nuovi e spaesati oltre che frastornati da un giorno e mezzo di viaggio, siamo tutti arrivati a Fiumicino la sera di venerdì 14 settembre per essere pronti all’imbarco alle sei del mattino, da lì un primo balzo a Lisbona, quindi il big jump fino ad Accra.

La capitale, come le consorelle di ogni altra parte del mondo (quattro milioni di anime), è caotica, ma già al primo semaforo si capisce che il posto è diverso da quelli che conosciamo. Ad attendere le automobili ci sono frotte di venditori che allo scattare del rosso invadono la carreggiata proponendo di tutto: acqua, pane, arachidi, gelati, spiccano alte donne con sacchi giganteschi di detersivo in testa o ciotole metalliche piene di dolci. La scena si ripete puntuale ad ogni semaforo e ce ne sono davvero tanti. Uscire da Accra non è facile e bisogna conoscere la città per districarsi nel labirinto delle vie, fortunatamente siamo in buone mani, un pulmino è partito da Abor per venirci a prendere, con due autisti e un’accompagnatrice.

Usciti dalla captale, man mano che si procede, l’Africa comincia a svelarsi, gli edifici a più piani scompaiono, le case diventano piccole, sempre più piccole fino a mischiarsi con baracche e capanne e la carreggiata si riempie di buche, persone e bancarelle. Siamo diretti al confine orientale del Ghana, vicinissimi al Togo, nel Volta Region. Dai finestrini entrano palme, voci di gente, clacson, pani, griglie accese, terra rossa e sorrisi, l’Africa ci abbraccia. Il viaggio dura oltre quattro ore, la distanza non è eccessiva, poco più di duecento chilometri ma i tempi di percorrenza sono questi.

Nel frattempo scende la notte, che qui, vicino all’equatore, arriva presto e tutto intorno viene inghiottito dal buio, esaltando lo splendore delle stelle e della luna, che adesso è mezza e crescente. Pochi i lampioni pubblici che si incontrano e ancora molte le persone a piedi che costeggiano la strada. La via che stiamo percorrendo è quella principale che porta al Togo e da lì arriva in Benin e poi in Nigeria, passano camion giganteschi, insieme a motociclette e strani mezzi che da noi, anni fa, chiamavamo motocarri, un ibrido tra una moto e un camion, o, se preferite, una moto con un cassone dietro e tre ruote complessive. Le motociclette sono un mezzo molto diffuso, in ogni villaggio ci sono i mototaxi, e sono piene di tutto: persone, canne da zucchero, sacchi, cesti, secchi, allegre sculture in movimento. Arriviamo sfiniti a notte inoltrata, ad attenderci nella missione “In My Father’s House” troviamo Padre Joe e una nuvola dei suoi bambini, un grande abbraccio stringe ogni cosa intorno.

“In My Father’s House” è un’incredibile realtà missionaria, costruita dal nulla 18 anni fa, per volontà di un uomo tenace e carismatico, il comboniamo Padre Giuseppe Rabbiosi, più fraternamente chiamato Padre Joe o anche Padre Peppino, un uomo del nord Italia, nativo della provincia di Lecco, che, coinvolgendo persone del posto, ha creato questo miracolo a cielo aperto, una struttura gigantesca e in continuo divenire nella quale ospita circa 150/200 bambini orfani fissi e 300 esterni che vanno per studiare, da lavoro ad insegnati, falegnami, autisti, idraulici e tante persone che a diverso titolo concorrono a mantenere funzionate e pulita una struttura grande come questa. I nostri alloggi sono austeri ma c’è acqua, luce e tutto ciò che serve, cose che molti all’esterno non hanno.

La struttura è protetta da un lunghissimo muro di cinta e sorvegliata all’ingresso da una persona, giorno e notte, dentro tanti complessi: dalle scuole per i più piccoli, all’equivalente delle nostre primarie e fino alla scuola media: refettori, case dove dormono, cucine, biblioteca, ampi spazi per giocare fino alla modesta porta d’ingresso dove abita Padre Joe, sulla quale campeggia una scritta che parla da sola, Save Africa With Africans, e che racchiude il senso profondo di questo immenso lavoro. Una struttura del genere in Italia costerebbe milioni di euro, qui si regge prevalentemente su donazioni e adozioni a distanza, nessun soldo dallo stato ghanese, stipendio medio di un insegnante 150 euro mensili. Tutto è spartano ma tutto c’è, primo il sorriso e l’affetto dei bambini e dei ragazzi residenti. Alla sera, nonostante fossimo sfiniti, ci invitano a una messa durante la quale ci sarà una piccola cerimonia di benvenuto, il tempo di lavarsi la faccia e andiamo, puzziamo e siamo sfatti ma ci siamo, otto “iavù” (così chiamano i bianchi).

La messa nella Chiesa che domina la missione, intitolata a Padre Comboni, è un happening nel quale la cerimonialità cristiana si sposa con la vitalità tipica africana: balli, canti e tamburi si susseguono tra una preghiera e l’altra creando qualcosa che conquista, credenti e non. Il culmine di questa festa/cerimonia si raggiunge quando i bambini cominciano ad intonare “O mamma mamma mamma, sai che c’è, innamorato so….” una cosa davvero fuori da ogni latitudine.

Questa canzone, due anni fa, l’avevano imparata da Maurizio Stammati, sangue napoletano e residenza a Formia, non se la sono mai dimenticata e oggi ce la restituiscono in tutta la sua potenza affettiva, segno che Napoli e il Ghana non sono poi così distanti. Molti si ricordano di noi, di ciò che abbiamo fatto nel 2016 e sono pronti a rituffarsi in quell’avventura incredibile che è il teatro. Sono cresciuti e i più grandi sono fuori, nel mondo del lavoro o dell’Università, a dare il loro contributo alla crescita e allo sviluppo del proprio Paese.

Domenica andiamo tutti al mare e vi regalo immagini di questo momento, lunedì cominceremo l’attività: tutte le mattine partenza di buon’ora per i villaggi del Volta Region dove faremo il nostro spettacolo e al pomeriggio laboratorio con i ragazzi della missione, con i quali allestiremo uno spettacolo finale… nel frattempo tutta la notte si sentono tamburi in lontananza, sono le “veglie” dei loro funerali, fenomeno del quale vi darò cronaca e che merita uno spazio speciale. Tutte le mattine, alle cinque in punto, in tutta Abor c’è una persona che attraverso potenti altoparlanti, tanto da sentirlo anche noi che siamo un chilometro distanti, parla alla popolazione e racconta i principali fatti di cronaca, una sorta di radio giornale quotidiano che dura circa una ventina di minuti, speriamo che questa pratica non si diffonda anche da noi. Alla prossima”.

 

Marco Renzi riporta il suo teatro in Africa: “Non si possono mettere frontiere alla cultura”

 


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