di Andrea Braconi
Come si racconta un terremoto “molto mediatico” dopo che i riflettori delle tv se ne sono andati? La risposta è dentro il libro “Gli spaesati” e nelle parole (oltre che nelle foto) di Angelo Ferracuti e Giovanni Marrozzini, che hanno illustrato a Fermo i contenuti del loro reportage ai giornalisti partecipanti al seminario nazionale di Redattore Sociale.
“Una mattina sono andato nei miei luoghi, dove andavo da ragazzo, ai quali sono profondamente legato e che hanno educato anche il mio sguardo – ha ricordato Ferracuti -. L’impatto con il paesaggio ferito è stato emotivamente molto forte. Dal primo incontro con i luoghi e le persone è scattato il desiderio di tornare. E andavo come vado sempre, in maniera molto arresa”.
“Ma come si poteva raccontare una storia così tragica ma così profondamente radicata in un’antropologia complessa?” si è domandato lo scrittore. “La prima cosa è stata quella di abbassare ai minimi termini i dispositivi narrativi, utilizzando la scrittura più mite che potessi. È stato un lavoro di lento avvicinamento e di empatia”.
E alla scrittura è stata affiancata l’immagine. “Le foto, specie in queste situazioni, non andrebbero troppo spiegate. Io sono particolarmente legato alla foto di copertina scattata a Castelluccio, con un fiore sollevato dalla mano che sta a significare la voglia di prendersi cura di un’identità, molto forte e radicata nelle persone che in quei territori vivono tutto l’anno”.
Nel parlare di solitudine (tema di questa XXIV edizione di Redattore Sociale), Ferracuti ha evidenziato la differenza fondamentale di stili di vita tra costa e interno. “Da un parte pulsa il mondo del consumismo e della stupidità, dall’altra si sviluppano meccaniche sociali diametricalmente opposte. E proprio le persone deportate sulla costa dopo il terremoto sono quelle che ci hanno portato verso questo titolo. Perché lì si è consumata una solitudine fortissima nella moltitudine”.
Altro elemento importante del libro è la gestione del tempo. “In quasi tutti i luoghi terremotati le persone non stavano mai ferme, camminavano di continuo, non avevano più un proprio luogo. Noi abbiamo cercato di raccontare tutto ciò che sfugge alla cronaca, siamo andati volutamente nelle frazioni più sperdute dove non arrivava nessuno. L’ho un po’ vissuta come un grande teatro all’aperto, dove c’era sempre qualcuno che arrivava e ti raccontava una storia”.
In contesti drammatici come quelli devastati dal sisma, il ruolo della fotografia è sempre al centro del dibattito. “Sono tanti gli scatti non fatti, ma ogni fotografia è stata veramente sentita e condivisa con le persone. Come si fa però a raccontare una persona che ti guarda e ti mostra un 3, e poi vieni a sapere che è il numero di cari che ha perso? Cosa gli fai? Una foto? Lo scatto deve possedere qualcosa di unico per essere scelto, deve essere una parola lunga che non finisce immediatamente. Poi arriva un momento in cui i riflettori vengono spenti e la parola continua a persistere, trasformandosi in altro. Si trasforma in memoria, oltre quel rettangolo che ormai non la contiene più”.
Uno scrupolo che però non si sono fatti tanti altri fotografi, protagonisti di un assalto definito indecente. “Come fai a scattare una foto di una persona completamente disarmata? Non si tratta di essere etici, si tratta di essere umani. Puoi raccontarlo senza andare a cercare l’urlo”. “Ho un rammarico fortissimo di tutti quei luoghi e persone che non sono andato a conoscere e che oggi non posso fare più – ha aggiunto -. Perché un luogo lo si vive soprattutto parlando con le persone e conoscendolo”.
Ferracuti ha tenuto a ribadire come dal suo punto di vista la politica non ci sia proprio stata. “Si sono sviluppati molti rapporti clientelari in piccoli paesi dove è mancato un dibattito ed un controllo da parte delle persone: questo mi ha colpito molto. Noi abbiamo volutamente scelto di fare un racconto diverso, di non entrare in merito a questioni che erano in movimento e che ci avrebbero portato da un’altra parte, a scrivere un libro che non volevamo scrivere. Volevamo invece raccontare la condizione umana in un determinato momento della storia. E se uno tra vent’anni vorrà capire cosa è successo, il nostro sarà stato un piccolo contributo”.
Quello “andato in onda”, invece, è stato un racconto sbagliato. “È un errore anche estetico, non va in profondità, si ferma sulla soglia. Racconta il pianto, ma non perché quella persona sta piangendo. L’effetto drammaturgico è molto forte, ma quello narrativo molto meno”.
“Questo è un mestiere difficile e hai un carico di responsabilità enorme” ha concluso Marrozzini.
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