Creed II afferma due grandi verità del nostro attuale panorama culturale: Michael B. Jordan si conferma uno dei migliori protagonisti del cinema americano maschile e il rivisitato franchise “Rocky” è di fatto uno dei multisequel Hollywoodiani degni di nota.
Qualche anno fa, prima del capitolo iniziale “Creed” (2015), tutto questo non era così scontato, ma tra l’interpretazione carismatica di Jordan, l’istinto piacevole di Sylvester Stallone e la regia di Ryan Coogler (che nel secondo ha passato il testimone a Steven Caple Jr.), la combinazione è vincente. E anche Tessa Thompson è un personaggio riuscito nel suo ruolo di Bianca nel film.
Il film è ben strutturato, boxe e muscoli misti a dolcezza e ricordi, senza perdere di vista le “tradizioni” della storia, modernizzando però il racconto al 21° secolo e lasciando percepire qualcosa di nuovo ed eccitante. Non è un caso che le tensioni tra passato e presente, tra padri e figli, tra la storia familiare e l’avanzata spinta dell’ambizione, abbiano un focus così intenso nel film.
Adonis, avendo dimostrato di essere degno del nome di suo padre, adesso si trova ad affrontare una prova diversa e più complicata, deve capire che tipo di combattente e che tipo di uomo vuole essere. Il catalizzatore della sua crisi d’identità è il picchiaduro ucraino Viktor Drago (interpretato da Florian Munteanu, un vero pugile), figlio di Ivan Drago, già visto in Rocky 4 del 1985 e interpretato sempre dallo stesso Dolph Lundgren.
Attraverso Viktor, cresciuto per essere un combattente, Ivan cerca la sua rivincita. Con l’aiuto dell’astuto promoter Buddy Marcelle (Russel Hornsby), i Drago riescono a far accettare ad Adonis un combattimento per il titolo, mentre Rocky manifesta i suoi dubbi. Quello che segue poi, ricalca le orme della trama di Rocky 4, cambiano le modalità ma gli archetipi sono rispettati con il campione che subisce una morte spirituale e una rinascita in un universo morale in cui sacrificio e redenzione vanno di pari passo.
E fin dall’inizio, i film Rocky hanno sempre abbracciato il potere della sconfitta. Perdere non rende persone migliori, ma rende delle persone. Nel percorso del film si alternano intimità, dolore e umorismo, creando un film credibile e soddisfacente.
di Eraldo Di Stefano