di Eraldo Di Stefano
“Captive State”: tra invasioni aliene e umani ribelli, arriva il thriller fantascientifico di Rupert Wyatt
Quando il film arriva prima delle recensioni e delle critiche, quasi sempre per scelta dello studio che ha scelto di non proiettare prima il film per i critici, spesso viene visto come un voto di sfiducia da parte del distributore. Una buona parte delle volte in effetti è così. Ma capitano quelle occasioni invece, in cui il film si dimostra molto meglio delle attese. Questo, molto probabilmente, è uno di quei casi.
Sono passati nove anni da quando la Terra si è arresa a degli invasori extraterrestri che ne hanno preso il controllo, e pian piano la vita è tornata ad una parvenza di normalità, adattandosi al nuovo regime. In cambio dell’accesso alle risorse del sottosuolo, gli alieni lasciano che l’umanità si prenda cura di se stessa.
Bisogna ammettere che il film non parte propriamente sparato, anzi i primi 30 minuti scorrono abbastanza lentamente, con l’introduzione di parecchi personaggi e dando solo la sensazione di ciò che il film ha in serbo per gli spettatori. Poi, all’improvviso, le cose decollano e il film parte davvero.
Partendo da un classico thriller di fantascienza anni ’70, Captive State si trasforma partendo da una sequenza di spionaggio prolungata con l’assalto al Soldier Field Stadium, e cambia faccia. Vengono curati nel particolare i vari dettagli, per ogni elemento dell’assalto, e il risultato è una scena di rapina acuta e così meticolosamente stimolata da far dimenticare l’iniziale parte più lenta.
Via via il film si streccia aprendosi in tutti i suoi strati e portando ad un finale forse un po’ scontato ma soddisfacente. Nel complesso Captive State combina fantascienza e fantasia insieme ad uno spionaggio dettagliato che si fonde in qualcosa di credibile e che alla fine soddisfa lo spettatore.
di Eraldo Di Stefano
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati