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Cambiamenti climatici,
preoccupa il Lago di Pilato
“Fenomeni di siccità più frequenti”

AMBIENTE - Le considerazioni di Alessandro Rossetti, funzionario tecnico del Parco Nazionale, e Pietro Ripani, accompagnatore di media montagna e guida dello stesso Parco. Monitoraggio costante su flora e fauna dell'area protetta

di Andrea Braconi

Una sfida enorme, quella dei cambiamenti climatici. Che vede impegnati esperti, centri di ricerca, facoltà universitarie e, ovviamente, istituzioni nazionali ed internazionali. Di certo il fallimento della Conferenza sul Clima (COP25), tenutasi nei giorni scorsi a Madrid, ha lasciato strascichi pesanti. E soprattutto forti preoccupazioni su presente e futuro del pianeta.

Alessandro Rossetti (foto Sandro Moriconi)

Un tema all’ordine del giorno – e non potrebbe essere diversamente – anche per il Parco Nazionale dei Monti Sibillini, che monitora costantemente alcuni elementi indicatori, come la situazione del Lago di Pilato. “Con l’università di Perugia stiamo facendo un monitoraggio dei chirocefali e abbiamo i primi risultati – ci spiega il funzionario tecnico Alessandro Rossetti -. I dati climatici che loro hanno raccolto confermano la tendenza climatica, che è quella di un aumento delle temperature negli ultimi decenni ed una diminuzione delle precipitazioni medie, con fenomeni di siccità più frequenti come abbiamo visto anche lo scorso anno, uno dei peggiori mai ricordati”.

Prima, ricorda Rossetti, il fatto che il lago si asciugasse assurgeva a vero e proprio evento. “Oggi invece capita molto spesso, quasi tutti gli anni. I periodi in cui si secca sembrano aumentare e presumibilmente dobbiamo aspettarci che aumenteranno in futuro. E questo sul lungo termine può anche creare dei problemi di sopravvivenza del chirocefalo del Marchesoni”.

Pietro Ripani

Anche l’irregolarità nelle nevicate, secondo la guida del Parco Pietro Ripani, denota una situazione sempre più precaria. “Da ragazzini andavamo a settembre al Lago di Pilato con le giacche a vento per scivolare nel nevaio che rimaneva dietro, dove c’era neve quasi tutti gli anni e per tutto l’anno. Invece adesso, il più delle volte, la neve non c’è neanche a giugno. Durante l’anno le nevicate sono sempre meno, alcune arrivano anche a maggio ma di queste non rimane nulla, non si accumulano. È una riserva di neve e di acqua che stiamo perdendo”.

Sul fronte dei cosiddetti bio indicatori, per Rossetti l’attenzione va spostata sulle specie orofile, cioè quelle piante legate all’alta montagna. “Durante le ere glaciali quelle che oggi troviamo ad oltre 2.000 metri sono scese a sud, nell’Europa meridionale. Poi, con l’aumento delle temperature nelle ere successive, sono andate a rifugiarsi sulle cime delle montagne ma non a quote altissime e, quindi, vivono in condizioni un po’ al limite della loro adattabilità”.

Il leccio, evidenzia Ripani, è una pianta dell’ambiente mediterraneo. “All’Infernaccio c’è una lecceta che arriva fino a 1.300 metri invece di arrivare a 300, così come ce n’è una nella Gola del Fiastrone, anche se lì parliamo di quote più basse di circa 700 metri. Questo cosa indica? Che ci sono stati dei periodi geologici nei quali faceva più caldo e quella era la fascia vegetazionale del leccio. Poi la pianta si è adattata ed è rimasta solo nei versanti a sud. Ma le piante restano dei grandi indicatori del clima e quelle che si sono adattate in quota più sù del Vettore non possono andare: quindi, se continua questo trend sono destinate a scomparire”.

Riguardo alla fauna, va segnalato il fringuello alpino, legato alle vallette nivali, in cui la neve normalmente permane fino a giugno, a volte fino a luglio. “Lì trovano degli insetti che vivono in questo ambiente più umido, ma queste vallette nivali, come si è visto negli anni, mediamente si sciolgono sempre prima. Per questo – afferma Rossetti – come Parco stiamo avviando un monitoraggio insieme ai Carabinieri Forestali de L’Aquila, che stanno facendo questa attività da diversi anni sul Gran Sasso. Abbiamo siglato un protocollo d’intesa per seguire il fringuello alpino e cercare di capire il suo trend in relazione ai cambiamenti climatici”.

Nel ricordare come 12.000 anni fa le temperature fossero più elevate di oggi, Ripani, che da un quarto di secolo è accompagnatore di media montagna, punta però l’indice contro l’uomo e le sue responsabilità per la velocità con la quale questi fenomeni si stanno manifestando. “Non sono Matusalemme – ironizza – ho solo 63 anni ma ricordo che a Montefortino gli storni nidificanti non c’erano, le taccole non c’erano e di colombacci nidificanti ce n’era qualche coppia. Inoltre, per vedere una gazza ladra dovevamo andare in basso, a San Ruffino, mentre oggi le trovi più in alto, a Colle Regnone”.

Anche se, come tiene a precisare Rossetti, sulle espansioni delle specie non ci sono ancora elementi scientifici che indichino come queste dipendano dai cambiamenti climatici. “Sono fenomeni che ci sono sempre stati. Il gruccione, ad esempio, è una specie sud europea e africana che adesso è arrivata più a nord, ma non è detto che sia legato a questo”.

Altra categoria molto sensibile, conclude Rossetti, è quella degli anfibi, la cui sopravvivenza è legata a piccoli fontanili alimentati da sorgenti di alta montagna. “Molte di queste si sono seccate, alcune per abbandono o per rottura della fonte; altre cause sono stati le modificazioni idrogeologiche indotte dal terremoto, ma un ulteriore fattore è, appunto, quello dei cambiamenti climatici”.

E proprio su un argomento così sensibile di recente il Ministero dell’Ambiente ha messo a disposizione un finanziamento sugli adattamenti ai cambiamenti climatici, con il Parco dei Sibillini che ha presentato una serie di schede progettuali, riguardanti anche interventi strutturali sul risparmio energetico, sui rifugi ed altro ancora. Piccoli ma vitali segnali in quell’oceano che, dopo Madrid, si è fatto sempre più tempestoso e dentro al quale la comunità internazionale deve nel più breve tempo possibile ritrovare la propria rotta. Prima del naufragio che il mondo scientifico, a voce alta, sta cercando di evitare.

 


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