di Andrea Braconi
Nella lunga ed intensa parte di vita che Emmanuel Chidi Namdi ha condiviso con la sua compagna Chinyere, sono state tante le date che hanno assunto un significato speciale. Nella buona e nella cattiva sorte, come viene ripetuto in quel rito matrimoniale che loro non hanno potuto compiere, riuscendo comunque a celebrare quella che viene definita promessa. Era il 6 gennaio del 2016 e nella chiesa di San Marco alle Paludi Don Vinicio Albanesi aveva benedetto simbolicamente i loro anelli. Tra i partecipanti c’era Cristina Girotti, operatrice del progetto ex Sprar (oggi Siproimi) “Era Domani”.
Proprio in un’altra data cruciale, quel 5 luglio che ha visto l’omicidio di Emmanuel a pochi metri dalla piazza centrale di Fermo, Cristina si è messa a ricercare foto di quella promessa di matrimonio. “Mentre lo facevo sono riaffiorati ricordi di quel giorno. Pur non potendosi sposare, avevano chiesto comunque di poterlo fare. Ma per chi era lì è stato come vivere un vero matrimonio, si respiravano un’unione ed una partecipazione sentite. E secondo me è stato così anche per loro due”.
Dalla Nigeria Emmanuel e Chinyere erano sfuggiti all’orrore dell’organizzazione terroristica Boko Haram, per poi vivere l’incubo di una Libia senza regole prima di attraversare il Mediterraneo e raggiungere l’Italia. A Fermo vivevano all’interno del Seminario, nonostante fosse una struttura per uomini. “La loro era un’eccezione ed è stata creata una stanza accanto all’ufficio per farli dormire insieme. Non hanno voluto mai dividersi”.
Proprio Cristina aveva accompagnato la coppia a scegliere le rispettive fedi. “Senza considerare la loro e la mia emozione, mi sentivo parte di questa scelta e di questo amore. Quel giorno ha deciso tutto Chinyere e di Emmanuel c’era un lato del carattere che mi piaceva: non parlava mai a vanvera, era silenzioso ma si è sempre dimostrato molto riflessivo”.
In questi 4 anni anni trascorsi dalla morte del 36enne, tante cose sono cambiate. Altre, invece, sono rimaste inscalfibili. Da un lato la lunga, lunghissima querele sulla chiusura dei porti, alla quale si affiancano i decreti pretesi da Salvini e tutt’ora in vigore, nonostante le promesse (mai mantenute) alla nascita del Conte Bis. “Per il nostro progetto – rimarca Cristina – la questione della protezione umanitaria (smantellata dall’ex ministro dell’Interno, ndr), che ci permetteva di inserire il 70% delle nostre persone, era importante anche per i nuclei monoparentali. La situazione attuale, infatti, farebbe rimanere fuori mamme con bambini, creando conseguenze molto gravi. Altro cambiamento è quello dei contributi per i centri di prima accoglienza: avendo diminuito i soldi per la gestione tante cooperative ed associazioni non hanno partecipato e chi lo ha fatto in realtà non riesce a fare vera accoglienza. Sono stati tagliati fondi per la facilitazione linguistica e per il sostegno psicologico, con i Cas che si reggono solo su vitto e alloggio, senza dare alcun aiuto concreto al migrante”.
Un deciso cambio di rotta che ha visto una drastica riduzione nella partecipazione ai bandi. Con delle eccezioni, specie nel territorio marchigiano. “Diversi Comuni, come Fermo, Porto San Giorgio e Grottammare, hanno deciso comunque di proseguire. C’erano diversi progetti in scadenza per i quali sono state inviate domande di prosecuzione, un fatto molto positivo perché significa credere in un sistema di accoglienza che funziona”.
Temi che il 5 luglio riecheggiano per le vie del capoluogo, specie in quel belvedere dove Emmanuel perse la vita e dove anche quest’anno comitati, associazioni, sindacati, studenti e l’Ordine regionale degli Psicologi hanno voluto ritrovarsi.
Per ricordare quello che è stato, guardando anche al presente e al futuro, come ha sottolineato Cecilia Strada attraverso un contributo video. “I nostri politici che si sono inginocchiati per George Floyd, oltre al suo nome avranno imparato anche quello di Emmanuel? Temo che la risposta sia no, perché è molto più semplice pensare che il razzismo sia la violenza degli altri, è più semplice condannare la violenza altrui, ma è molto più complesso guardare il razzismo come si articola all’interno delle nostre case, nei nostri quartieri, nelle nostre città, nei nostri campi. È più facile condannare il razzismo in sé, è più difficile fare i conti con il razzismo in me. Eppure è estremamente necessario nel nostro Paese”.
Perché il razzismo, ha proseguito, non è soltanto quello che arma la mano dell’assassino. “Il razzismo è quello che fa girare dall’altra parte i testimoni, che non hanno visto niente; è quello che ci fa stare zitti davanti ad un’aggressione verbale sull’autobus; è quello che ci porta a pensare che sia normale che ci siano vite di serie A e vite di serie B”.
Lo schiavismo nei campi, i naufragi e le imbarcazioni alla deriva in mezzo al mare, fino alle donne violentate nei lager della Libia: elementi di un mosaico che Strada ha voluto portare all’attenzione dei partecipanti alla manifestazione. “Accetteremo mai che ci sono donne bianche che ogni giorno vengono stuprate e che quando finalmente riescono a scappare paghiamo per rimandarle indietro? Ovviamente no, se fossero bianche. Quindi dobbiamo fare i conti con il razzismo strutturale nelle nostre teste, prima che nelle nostre istituzioni”.
C’è poi la questione dei tanti bambini di origine straniera nati in Italia. Bambini che cantano l’inno nazionale ai saggi della scuola, insieme ai loro compagni bianchi, ma che non hanno i loro stessi diritti. “Solo per il fatto che i loro genitori sono stranieri, ci rifiutiamo di dargli una cittadinanza che gli spetta”.
E il razzismo, ha concluso citando Calvino, è anche quell’inferno dei viventi che creiamo stando insieme. Ma la buona notizia è che possiamo smetterla. “Come si fa a non soffrire in questo inferno? Ci sono due modi, dice lo stesso Calvino: uno è accettarlo, diventarne parte, non accorgersi nemmeno più dell’inferno che abbiamo attorno; l’altro modo invece richiede attenzione, disciplina, apprendimento, onestà, un impegno costante ed è cercare quello che in mezzo all’inferno non è inferno, dargli spazio e farlo durare. Ecco, io credo che quello che voi oggi state facendo è questo: un po’ di luce in mezzo al buio. Buon lavoro, perché ce n’è tanto, tanto, tanto bisogno”.
Un lavoro che continua quindi, con la stessa priorità da quel luglio 2016: far affiggere all’Amministrazione comunale una targa che ricordi Emmanuel ed i contorni xenofobi dell’intera vicenda. Una ferita ancora aperta per il Comitato 5 Luglio e anche per chi, pur al di fuori di circuiti organizzati, ha sempre ritenuto e continua a considerare importante che una città accogliente come Fermo non dimentichi.
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