di Massimo Temperini (Presidente della Società Dante Alighieri Comitato di Fermo)
Nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321 muore a Ravenna Dante Alighieri. In occasione della ricorrenza del 700° l’Alighieri è stato oggetto di un grande interesse da parte di molti settori della cultura e dell’informazione. In ambito locale varie sono state le iniziative che hanno riproposto tematiche a carattere generale, specialmente incentrate sulla lettura e commento della Divina Commedia.
Sguardi danteschi si sono soffermati sulla vicina Urbisaglia (Paradiso XVI, 73-75: Se tu guardi Luni e Orbisaglia/come sono ite, e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia) e sul non lontano fiume Tronto (Paradiso VII, 64: da dove Tronto e verde in mare sgorga) ma sembra abbiano trascurato il nostro territorio.
Fermo lontano dalle tappe della geografia dantesca in passato si è aggrappato a invenzioni genealogiche. Il poeta Franco Matacotta rimarcava l’antistorica e campanilistica rivendicazione fermana di aver dato origine alla famiglia di Dante per via dell’esistenza di un vicolo intitolato a Elisei, il che avrebbe a ritroso ricondotto ad Eliseo, fratello di Cacciaguida, antenato del grande fiorentino. Più consolante invece è la notizia del vescovo Giovanni de Bertoldi che entrò nella diocesi fermana nel 1413. Partecipando al Concilio di Costanza il nostro vescovo stupì il consesso tanto che alcuni prelati inglesi insistettero perché Bertholdus traducesse in latino la Divina Commedia.
Seppur non presente nelle tre cantiche il fermano riemerge, invece, dal De Vulgari Eloquentia (DVE I XI 3) attraverso la Canzone del Castra che rappresenta una delle prime manifestazioni del volgare italiano e marchigiano.
Si tratta di un incontro agreste con protagonisti due giovani e con finale di amorosa soddisfazione. Lei è una fermana (così viene citata per ben due volte) e lui forse un cavaliere o un cantastorie (l’Alighieri si limita a definirlo quidam florentinus nomine castra). Nel parlare dei vari dialetti italiani, Dante non è tenero con nessuno neanche con l’idioma fiorentino. Nel caso del volgare dei romani, degli «Spoletani» e de «gli abitanti della Marca d’Ancona» (che includeva il Piceno) non è certamente da meno sottolineando che costoro parlavano chignanamente. Tuttavia tra le molte canzoni e motteggi usati a mo’ di beffa e d’improperio, una tra le tante al Poeta apparve recteaque perfecte ligatam, cioè composta in modo perfetto ed è il caso della Canzone del Castra.
Il professore Sandro Baldoncini dell’Università di Macerata a lungo si è soffermato, sullo scorcio del passato secolo, sulla straordinaria ricchezza di questa composizione facendone emergere i caratteri non solo linguistici e glottologici ma anche quelli sociali, storici ed economici. Composto probabilmente tra il 1240 e il 1260 questo incunabolo della nostra lingua narra di una vicenda ambientata lungo la sponda destra del fiume Chienti (Clenchi nel testo) e descrive abitudini, oggetti e luoghi di cui non è difficile ancora oggi trovarne testimonianza nel nostro territorio. L’abitazione dove si compie la seconda parte dell’azione narrativa è un atterrato, edificio sicuramente umile ma largamente diffuso nell’Italia centrale.
Nei prossimi mesi si auspica un recupero d’interesse nei confronti della memoria di questo documento attraverso un confronto tra storici e linguisti.
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