Renzi porta Teatri senza Frontiere a Kibera, lo slum di Nairobi dove la povertà assoluta non cancella il sorriso

IL RACCONTO di Marco Renzi da uno degli slum più poveri della capitale del Kenya. Lì lo spettacolo che ha regalato sorrisi ai più piccoli. «Il nostro stesso andare a fare uno spettacolo è stato preceduto da mille raccomandazioni e da operatori che hanno preparato il terreno»


di Marco Renzi (foto di Ruggero Ratti)

«Kibera è il nome di uno degli slum che circondano oramai il centro della capitale del Kenya, ce ne sono diversi ma questo è considerato tra i più grandi di tutta l’Africa, quante persone ci vivono è difficile da stabilire. I vari censimenti, che pure ci sono stati, riportano dati ufficiali che però difficilmente corrispondono alla realtà delle cose. Molte persone, come ai tempi di Gesù, hanno preferito farsi censire nel loro villaggio di origine, affrontando viaggi certo non facili, per chi non ha nulla, pur di non vedere scritto su un documento che abitano nello slum di Kibera. C’è chi pala di un milione di persone come cifra attendibile e comunque sempre in continua evoluzione. Lo slum è un accrocco di baracche prevalentemente in legno e lamiera, coperte con i “tipici” tetti in metallo ondulato color ruggine, un tempo sorgevano ai margini della città, fino a diventarne oggi parte integrante.

Kibera, in linea d’aria, dista qualche chilometro dagli avveniristici grattacieli di cui il centro città fa sfoggio, un tempo era una vergogna lontana ma oggi è lì, abbracciata a quegli edifici fastosi, simbolo del progresso e della ricchezza. Ce ne sono di tutte le forme: pendenti, attorcigliati, slanciati e austeri, insieme costituiscono l’inconfondibile skyline di Nairobi, sotto al quale si espande la brulicante vita del business: scandita da banche a ripetizione, tutte corredate da uomini armati all’ingresso, bar, ristoranti, auto di grossa cilindrata, uomini e donne ben vestiti e tutto quel movimento che oramai contraddistingue ovunque la moderna vita occidentale. Ad uno sguardo più attento, dopo qualche tempo di permanenza, non sfuggono però segni di squilibrio, primo fra tutti quello dell’aria che puzza di scarichi, perché in mezzo ai potenti Mercedes sfrecciano centinaia di fumanti ‘matatu’, i fantasmagorici autobus che collegano le periferie al centro e che meritano uno scatto speciale tutto per loro che gli verrà dedicato in altri report. Come un bel vestito dal quale spuntano scarpe sporche, si scoprono poi marciapiedi “sgarrupati”, giovani dei quartieri poveri che ti avvicinano, mendicanti che chiedono soldi e via dicendo. Sono i lembi di una miseria che nonostante si cerchi di nascondere sotto il tappeto, comunque affiora, anche perché è vicina più di quanto si possa pensare. Basta infatti spostarsi di poco e il pianeta diventa un altro: con abitanti, orbite e leggi diverse».


«Ho visto- la testimonianza diretta di Marco Renzi – la faccia della miseria stamparsi in tante parti del mondo, ma quella di Kibera non credo che riuscirò a dimenticarla. Il primo impatto è devastante e si apre su un canyon foderato da quintali di rifiuti, un paesaggio lunare, dominato dalla terra rossa che ben si sposa con il color ruggine dei tetti delle baracche, che si perdono a vista d’occhio da ogni parte si volga lo sguardo. Sul fondo del canyon passa la ferrovia, o meglio passava, oggi i treni sono stati deviati e solo pochissimi ancora vi transitano, forse perché era troppo imbarazzante o forse per via dei “fly” di cui ci hanno raccontato. In passato in maniera totale, oggi molto meno, la gente faceva i propri bisogni in sacchetti di plastica che poi lanciava nel canyon, dicono che la quantità fosse tale che una volta un treno deragliò per questo motivo. Oggi ci sono diversi bagni pubblici, le baracche non hanno servizi igienici e quelli che ci sono li utilizzano comunitariamente, che è pur sempre meglio del lanciare. Non c’è acqua corrente, chi la vuole la compera in taniche gialle che si vendono un po’ ovunque, le carica in spalla e se le porta a casa. Gli abitanti delle baracche non ne sono proprietari ma pagano un affitto a chi detiene i diritti su quel terreno e questo sembra essere uno dei motivi che rallentano una possibile soluzione del problema, sta di fatto che milioni di persone vivono in uno stato desolante e impensabile se non lo si vede con i propri occhi.

Non è possibile andare dentro gli slum, né quello di Kibera, né altrove, vi accedono solo quelli per lavoro, ong in testa, ma per la polizia entrare è molto difficile se non impossibile. Diverse bande controllano la situazione e a detta di chi conosce queste realtà non c’è mai da stare sicuri, il nostro stesso andare a fare uno spettacolo è stato preceduto da mille raccomandazioni e da operatori che hanno preparato il terreno affinché il tutto potesse svolgersi nella massima sicurezza. Ci siamo sistemati in un pezzo di terra polverosa e scoscesa, hanno preso i banchi di legno di una scuola vicina, li hanno portati e sistemati a cerchio, poi sono arrivati i ragazzi e con loro altra gente si è fermata e per un’ora il teatro ci ha resi esseri umani liberi. Abbiamo riso, battuto insieme le mani, assistito più che ad uno spettacolo, ad un evento che stentiamo a credere sia realmente avvenuto, per fortuna le immagini fotografiche sono lì a tranquillizzarci che non abbiamo sognato e a dirci che sopra un pezzo di terra rossa, tra quintali di spazzatura intorno, delle persone sono state insieme, come su un grande tappeto volante, trasportate in un altrove che li ha resi, per quel tempo che è durato, una comunità felice: bianchi, neri, cattolici, musulmani, preti, laici, bambini, operatori, ladri, malati, tutti insieme, per essere più semplicemente genere umano».


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