Ha suscitato accese polemiche la decisione, da parte del premier da poco insediatosi a Palazzo Chigi, di aggiungere al ministero dell’istruzione la dicitura “e del merito”. Ora, è necessario fare un distinguo. Se il termine “merito”, da un lato, va riferito alla “premiazione” degli alunni della scuola dell’obbligo che sono più talentuosi (a discapito di chi è meno dotato), allora è giusto criticare la incongruità e l’ingiustizia (nella sostanza) della aggiunta lessicale. All’atto di scegliere un indirizzo preciso (licei, Itc etc), fermo restando l’aiuto ai soggetti più bisognosi, ritengo che il merito vada invece premiato, soprattutto nella accezione di diligenza e applicazione nello studio. Se, dall’altro lato, si considera la locuzione con riferimento a quelle che debbono essere le competenze necessarie a ricoprire un posto nella pubblica amministrazione, non può giocoforza prescindersi dal merito: il decadimento delle istituzioni e innervature dello Stato (apparato centrale compreso) è dovuto, non è chi non veda, a questa gestione disinvolta della cosa pubblica, ai favoritismi che originano da raccomandazioni e conoscenze ex alto, antico malcostume italico che deve essere archiviato una volta per tutte.
Chiudo con le parole di Paolo Crepet: “Il principio del merito è sacrosanto, sia per gli insegnanti che per i ragazzi. Per i primi perché li sospinge a migliorarsi nell’esercizio della loro funzione e per i secondi per acquisire la consapevolezza che la scuola è l’unico vero motore del Paese”.