Novembre e le origini del Thanksgiving: dalle nostre campagne il Ringraziamento sbarca negli Stati Uniti

TRADIZIONI - Il mese di novembre non è solo 'dei morti' ma anche del Ringraziamento. La festa a stelle e strisce e le sue origini nella tradizione tutta italiana tra ricorrenze, fede, sacrifici e lavoro nei campi

di Antonietta Vitali

Novembre “mese dei morti” ma non solo, è anche il mese del Ringraziamento. Quello più famoso a livello mondiale è sicuramente il Thanksgiving americano, sdoganatissimo dal cinema Made in Usa. Si tratta di una festa di origine cristiana che viene celebrata per manifestare gratitudine a Dio per il raccolto e per tutto quanto ricevuto dalla terra durante l’anno trascorso. Cade ogni 24 novembre, le tavole si arricchiscono di tacchini enormi ripieni e di dolci e contorni a base di zucca, l’albero di Natale è già bellissimo e luminescente. L’usanza sta prendendo piede anche qui in Europa ma forse è giusto sapere che la festa non se la sono inventata loro. A questo, ad onor del vero, ci potevamo arrivare anche da soli, con un po’ di sforzo di neuroni perché, se ci siamo andati noi europei, prima a scoprirli e poi a colonizzarli, in qualche modo la festa a noi doveva essere connessa. Ma ad aprire il vaso di Pandora è stato un parroco, durante un’omelia nel corso della quale ha fatto riferimento ad una antica usanza contadina, quella, appunto, di ringraziare Dio per il raccolto nei primi giorni di novembre che vanno da dopo il 2 fino all’11 dello stesso mese cioè, il giorno di San Martino. Capire qualcosa di più su questa antica festa era indispensabile e il risultato è quello scritto nelle righe che seguono.

La data dell’11 novembre non è casuale, oltre a San Martino, in ambiente rurale è da sempre l’inizio dell’anno agricolo che, all’epoca, segnava l’inizio di una nuova affittanza agricola dopo che i contadini avevano ricevuto la disdetta dal campo. Non era scontato essere mandati via ma accadeva, la regola diceva che in caso di disdetta questa dovesse essere inviata al fittavolo tre mesi prima cioè, entro il 10 agosto, giorno di San Lorenzo, ma non sempre questa buona prassi veniva rispettata. Con o senza preavviso, insomma, il campo doveva essere lasciato prima dell’alba di San Martino e per evitare sguardi curiosi o indiscreti, rivalità e gelosie, il trasloco da un campo all’altro avveniva quando ancora non si era fatto giorno. Sul carro trainato dai buoi, oltre alla famiglia, le poche cose da portare da un casolare all’altro, il letto, il tavolo, la mattera, i pochi utensili da cucina, gli attrezzi per il campo. Con il nuovo proprietario terriero un nuovo contratto agricolo da sottoscrivere, contenente i termini del rapporto di lavoro che comprendevano, oltre alle percentuali di divisione delle grandi coltivazioni come grano, olio, uva, anche, ad esempio, quanti capponi portare in un anno al padrone, quanti per il giorno del suo compleanno, quante uova al mese, quante fascine di legna annuali, quanta legna da ardere. Le capitolazioni potevano poi sfociare in altre forme di accordo come, la pulizia della casa padronale o l’accudimento del padrone e della sua famiglia in caso di necessità, il bucato e via dicendo. Sembra un mondo lontanissimo rispetto a quello attuale eppure non lo è, tanto che qualche nostro nonno tutto questo lo ricorda ancora, come ha bene in mente che le disdette dei contratti agricoli furono sospese da Mussolini con lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Gli uomini partivano per il fronte, le donne rimaste a case non potevano passare da un fondo all’altro da sole portando con loro figli, bestiame e i pochi beni di proprietà provvedendo anche alla semina del campo che, come recita un vecchio proverbio “per Santa Croce e San Cipriano semina in costa e semina in piano”.

La semina doveva essere finita, a prescindere dalla posizione del terreno, per il 20 novembre, giorno appunto di Santa Croce e San Cipriano e giorno di fine dell’anno liturgico che inizia poi con la prima domenica di Avvento. Gli unici giorni in cui non si lavorava per seminare erano l’1 e il 2 novembre, nel rispetto della commemorazione dei defunti, come non avevano luogo i festeggiamenti del ringraziamento che invece nei giorni successivi avrebbero visto i contadini andare nelle chiese dei vari paesi per far benedire attrezzi e bestiame portando in dono offerte come olio, vino e altri frutti della terra. Due di questi preziosissimi, vino e castagne, il primo perché “a San Martino, ogni mosto diventa vino” e quindi intorno a questa data è maturo il vino nuovo, le seconde perché sono un prezioso frutto autunnale dall’alto potere nutrizionale tanto che, l’albero che le produce viene chiamato da sempre l’albero del pane proprio ad indicarne il grande valore. Arrosto o trasformate in dolci ghiottissimi, nelle zone che non le avevano come risorsa del territorio venivano scambiate e l’altro termine del baratto era, appunto, il vino, la cui maturazione nello stesso periodo delle castagne aveva, quindi, carattere di essenzialità. Tra i tanti modi di cuocere le castagne forse quello che restituisce a loro meno gloria di tutti è farle lesse perché restano quasi senza personalità, proprio come noi, che sembriamo lessati e senza carattere quando ci facciamo trasportare dalle mode esterofile senza nemmeno sapere che quella moda diventata così famosa, in realtà, era la nostra. 


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