L’impresa estrema del fermano Franchellucci sui ghiacciai della Georgia del Sud: «Ho temuto di morire» (Video e Foto)

AVVENTURA al limite delle possibilità umane per il 34enne. Ed è lui stesso a raccontarcela: «Uno si deve sentire vivo nella vita, riempirla, una vita serena e questa è una cosa che mi rende felice. Penso che la gente dovrebbe di più inseguire i sogni e fare quello che gli piace, è difficile farlo, ma sicuramente vivremmo in un mondo molto migliore». E già pensa a Nepal o Alaska
Il video dell'impresa del fermano Riccardo Franchellucci

Riccardo Franchellucci

di Antonietta Vitali

«Ci sono stati momenti in cui ho davvero pensato di morire e il mio pensiero è andato alla mia famiglia», questo dice, Riccardo, ad un certo punto del racconto sulla sua arrampicata, abbassando lo sguardo come quasi a rivivere con la stessa intensità la sensazione provata in quei giorni sui ghiacciai della Georgia del Sud. A narrarci la sua vera e propria epopea è Riccardo Franchellucci, fermano doc, 34 anni, laurea in ingegneria civile, fotografo, la passione per l’alpinismo che gli nasce da bambino quando il suo parroco ogni domenica portava lui e i suoi compagni di oratorio in montagna a camminare. A luglio del 2022 partecipa all’intervento di Alex Txikon, scalatore di origine basca, a Smerillo al festival Le Parole della Montagna, ci entra in confidenza, Alex chiede a Riccardo di partecipare, in qualità di fotografo, con lui ad una esplorazione che segue le orme del percorso fatto da Ernest Shakleton organizzata in occasione del centenario della sua morte e Riccardo accetta.

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Chi è Ernest Shakleton? È stato un esploratore britannico di origini irlandesi nato nel 1874 e morto nel 1922, noto per l’avventurosa spedizione Endurance durante la quale riuscì a portare in salvo eroicamente tutti i membri della sua ciurma (28 in tutto compreso lui) compiendo imprese che hanno dell’irrealizzabile. Il pallino di Shakleton era attraversare l’Antartico, unica conquista che rimaneva per poter essere considerati esploratori di prestigio. Parte il primo agosto del 1914 da Londra, arriva nella Georgia del Sud da dove, il 5 dicembre 1914 salpa per il Mare di Weddell, ci arriva, ma la nave resta incastrata sulla banchisa. L’equipaggio abbandona la nave e resta accampato sulla banchisa fino all’aprile del 1916 quando raggiungono a bordo delle scialuppe l’Isola dell’Elefante dove però capiscono che non ci può essere salvezza. Allora Shakleton decide di compiere un’altra spedizione, con soltanto cinque membri del suo equipaggio, vuole navigare a bordo di una scialuppa per 870 miglia marine (circa 1.600 km) per raggiungere la stazione baleniera di Stromness nel versante Est della Georgia del Sud. Ma navigando in condizioni meteorologiche disastrose approda nel versante Ovest ad Haakon Bay e in 36 ore riesce, insieme ai suoi, ad attraversare 30 miglia (circa 50 km) di ghiacciai e montagne, senza mai fermarsi, senza dormire. Arriva a Stromness il 20 maggio del 1916, da qui organizza il salvataggio dei suoi uomini sull’Isola dell’Elefante che vengono tutti recuperati il 30 agosto dello stesso anno.

Come in una sorta di “Diario di Viaggio dell’Esploratore” Riccardo, l’incredibile avventura vissuta con i suoi compagni di spedizione seguendo lo stesso percorso intrapreso da Shakleton, la racconta più o meno così: «La partenza è fissata per il 29 settembre da Madrid e 4 scali: Lima, Santiago del Cile, Punta Arenas e le Falkland. Arrivati a Mont Plesant, piccolo aeroporto militare delle Falkland, il primo imprevisto: il bagaglio con tutto il materiale di sicurezza, corde, chiodi da ghiaccio ed imbraghi è smarrito, non possiamo salpare senza ed il prossimo volo per consegnare il bagaglio arriverà tra una settimana. Approfitto di questa attesa per conoscere i miei compagni: Juan Diego Amador, Ignacio De Zuloaga, Domigo Expòsito, Juan Manuel Sotillos e Rafael Vazquez medico della spedizione. A bagaglio arrivato ci imbarchiamo sull’ Yopoke II, una barca a vela di 18 metri che solcherà uno dei tratti oceanici più pericolosi ed insidiosi del pianeta fino a raggiungere King Haakon Bay da dove inizierà la nostra avventura. La barca spiega le vele appena uscita dalla baia, davanti a noi l’immensità dell’oceano Atlantico. La navigazione dura 6 giorni, tra onde e mal di mare, il mare grosso ci impedisce di entrare a ovest dell’isola e dobbiamo circumnavigarla fino a Possesion Bay dove finalmente sbarchiamo. Il tempo non è dei migliori e un altro imprevisto è alle porte, dopo due ore Rafael, il medico, decide di abbandonare e fare retro front verso la barca. Sono le 5,30 del terzo giorno quando mi sveglia l’ennesima raffica di vento. Nemmeno il tempo di aprire il sacco a pelo che arriva l’ennesima raffica questa volta più forte delle altre. La tenda non regge, si piega su sé stessa e il telo umido ci si stampa in faccia. Siamo senza tenda. Quando scende la notte decidiamo di scavare un buco nella neve dove avremmo passato la notte io e Ignacio pronti ad accogliere gli altri tre nel caso anche la loro tende avesse ceduto. Ci ritroviamo bloccati tra la tormenta senza poterci muovere per due interminabili giorni. In Georgia del Sud non esistono squadre di soccorso, non esiste elisoccorso, si entra in questo inferno di ghiaccio con le proprie gambe e si deve uscire con le proprie gambe. Martedì il vento improvvisamente sembra smettere, attendiamo un’ora per vedere se la tregua regge, facciamo in fretta i nostri zaini e decidiamo di partire. Dobbiamo attraversare tutto il plateau del ghiacciaio e raggiungere un punto riparato a circa 2km di distanza. La tregua dura pochissimo e dopo 500 metri ci troviamo in balia della tempesta senza nessun riparo. Io 75 kg con uno zaino da venti vengo sollevato da terra e sbalzato a 3 metri di distanza, le slitte che trainiamo con 25 kg di materiale si alzano in area come aquiloni e ci trascinano verso il fondo del ghiacciaio. Non riusciamo ad avanzare, siamo tutti allo stremo delle forze in una impari lotta contro la tormenta. Nessun si dà per vinto e con uno sforzo sovrumano riusciamo ad avanzare fino al riparo di un piccolo sperone di roccia. La barca ci avvisa via satellitare che domani dovremmo avere una tregua e che poi la tormenta tornerà più forte di prima. L’indomani mattina partiamo all’alba, siamo immersi in quello che gli alpinisti chiamano White out, l’effetto è la completa perdita di visibilità e di orientamento a causa di un biancore uniforme con totale assenza di ombre per cui non si coglie la differenza tra terreno innevato e cielo. In queste condizioni proibitive camminiamo a ritmo forzato e senza sosta fino alle 7 di sera. Quando cala il sole ci troviamo su una piccola vetta, la Baia e sotto di noi ma l’unico modo per raggiungerla e calarsi sulla parete innevata senza nessuna visibilità. Iniziamo le manovre con la corda nella totale oscurità, sotto di noi l’ignoto. Siamo sfiniti e bagnati fradici dalla pioggia mista a neve quando finalmente iniziamo a sentire il richiamo di pinguini ed elefanti marini. Arrivati alla Baia un’altra cattiva notizia, il mare è troppo mosso e il fondale troppo basso, il gommone non può navigare dovremo passare un’altra notte sull’isola. Solo alle 5 del mattino riusciamo in un disperato tentativo tra onde di due metri a tornare alla nostra barca, siamo salvi. La nostra tranquillità dura solo qualche giorno, nel viaggio di ritorno dopo 8 giorni in mare aperto veniamo sopresi da una tremenda burrasca, venti di 60 nodi e onde di 7 metri si abbattono sulla piccola imbarcazione, l’albero maestro sbatte sull’acqua e più volte rischiamo di affondare. Fortunatamente riusciamo indenni a raggiungere il porto di Stanley dove finalmente possiamo abbracciarci e festeggiare”.

Nel corso dei prossimi giorni sui suoi profili Instagram e Facebook racconterà con foto e video del suo viaggio in Georgia del Sud, sta già preparando prossime spedizioni in Nepal e in Alaska, molte altre le spedizioni già fatte come in Patagonia e in Marocco, continua con la sua preparazione fisica andando nei fine settimana ad effettuare percorsi sui Monti Sibillini. Il primo piatto che ha chiesto di mangiare quando è rientrato “nel mondo comodo” è stata la pizza dopo aver mangiato cibo liofilizzato per tutto il tempo della spedizione e a chi gli chiede «ma chi te lo ha fatto fare?» risponde «uno si deve sentire vivo, riempire la propria vita, averla piena, felice e questa è una cosa che mi rende, appunto, felice e appagato. Penso che la gente dovrebbe di più inseguire i sogni e fare quello che gli piace, è difficile farlo, ma sicuramente vivremmo in un mondo molto migliore».


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