di Antonietta Vitali
Il ritratto del (forse) più famoso membro della storica famiglia fermana Matteucci, Saporoso Matteucci, è esposto nell’ufficio del presidente di Fondazione Carifermo presso la sede istituzionale dell’istituto bancario situata in Via Don Ernesto Ricci 1. La fama del condottiero, nato a Fermo nel 1515 e morto ad Avignone nel 1578, è dovuta alla leggenda legata a lui e alla Torre Matteucci e che viene raccontata durante la visita a palazzo aperto da Carifermo dal 7 al 14 ottobre in occasione di ”è cultura”, manifestazione nazionale promossa dall’ABI e dall’ACRI.
«Un evento molto importante – ha riferito Giamaica Brilli, responsabile delle relazioni con il pubblico di Carifermo – per noi, per il presidente di Carifermo Spa Alberto Palma e per il presidente di Fondazione Carifermo Giorgio Girotti Pucci, dei quali vi riferisco i saluti, che ripetiamo con piacere ogni anno perché è l’occasione per far conoscere la nostra sede a tutti coloro che sono interessati ad ammirare le nostre collezioni di arte piuttosto che le varie stanze».
Una visita davvero interessante, all’interno di un complesso che ha percorso i secoli della città di Fermo partendo dall’epoca romana arrivando fino agli anni trenta, cioè gli anni in cui la Carifermo ristruttura il palazzo per farlo diventare la propria sede, arrivando fino ai giorni attuali.
L’istituto di credito, fondato nel 1857, acquista Palazzo Matteucci negli anni ’30 del 1900 e ne inizia i lavori di ristrutturazione nel 1934. Gli interventi necessari partono da uno scavo in una zona interrata laterale che invece rivela subito meraviglie. Viene scoperto infatti un muro costruito secondo una precisa tecnica di costruzione romana, l’opus reticolato. Nessun dubbio, quindi, sorge riguardo l’epoca di origine della parete, ma qualche studio su cosa fosse e di quale edificio facesse parte è stato fatto. Mettendo in relazione questi resti con altri resti già presenti nella zona dove sorge il palazzo si è capito che si trattava del muro perimetrale del teatro romano.
Dopo questo primo importantissimo reperto archeologico, la visita del palazzo prosegue all’interno del secondo piano, quello destinato agli uffici dirigenziali. Un percorso che si snoda tra meravigliosi marmi e arredi art decò che si mischiano armoniosamente con opere d’arte, facenti parte della collezione della fondazione come, la “Madonna col bambino in sacra conversazione” di Vincenzo Pagani, una pala del Crivelli, tele di Adolfo De Angelis, strumenti musicali quali, ad esempio, un violino Postacchini del 1819, e poi opere di Andrea Del Sarto, Giulio Romano, Filippo Ricci, Luigi Fontana.
Quando, negli anni ’30, iniziarono i lavori di ristrutturazione del palazzo, le mentalità non erano rivolte alla valorizzazione di affreschi e dipinti storici. Molte controsoffittature hanno quindi tenuto nascosti per anni decori che la famiglia Matteucci aveva usato per abbellire le stanze della propria dimora e che sono stati scoperti a seguito di alcuni recenti lavori. È stato, ovviamente, inevitabile lasciarli in vista e oggi, molti sono perfettamente integri come il soffitto dell’ufficio dell’ing. Girotti Pucci, decorato con angioletti, fanciulle danzanti, angeli che lanciano dardi innamorati, colombe, una serie di abbellimenti, insomma, che lasciano pensare ad una camera matrimoniale destinata a dei novelli sposi. Era dipinto su tela il decoro posto al centro della volta e che ora si trova ad una parete della stanza, raffigurante “Venere allo specchio”. Degne di nota anche le antiche casseforti che si possono notare in diversi uffici e che un tempo ospitavano la conservazione delle valute.
La mostra fotografica al primo piano ospita scatti di Giampaolo Russo raggruppati sotto il titolo di “Come eravamo, immagini di un mondo che non c’è più”: sedici fotografie che raccontano di scene di vita popolare, in campagna, durante la mietitura, una delle fasi più importanti dell’agricoltura e che erano anche un momento di grande solidarietà e convivialità.
E per finire, la leggenda della Torre Matteucci, l’unica torre medievale rimasta delle tante torri di guardia che proteggevano Fermo dagli attacchi dei pirati e dei conquistatori. Alta 25 mt, basamento 4×2, risalente al XIII secolo, appartenuta poi alla famiglia Matteucci, una delle famiglie più importanti e potenti di Fermo, dal 1500, si racconta che Saporoso Matteucci, assoldato per la Repubblica di Venezia a Corfù contro i turchi, riuscì a rapire la figlia di Solimano il Magnifico, Kamaira, chiedendo in cambio per la liberazione della ragazza la restituzione di 100 prigionieri cristiani. Il condottiero portò la giovane a Fermo e la rinchiuse all’interno della torre ma si narra che, dopo il pagamento del riscatto, la ragazza non tornò in Turchia perché si innamorò ricambiata di Saporoso.
«La riflessione – posta al pubblico partecipante alla visita da Giamaica Brilli e con la quale ci fa piacere concludere questo spazio – è quella che il palazzo non è un museo ma una vera e propria sede istituzionale. Ma da tutto quello che vedrete visitando i nostri spazi vi invito proprio a fare una riflessione sull’importanza dei ruoli che hanno la banca e la fondazione nel valorizzare, custodire, tramandare quelli che sono gli artisti, le loro espressioni nel tempo».
Il prezioso e interessante racconto storico è stato fatto per conto di Maggioli Cultura da Sara Bernetti, archeologa, Vissia Lucarelli, storica dell’arte ed Elisa Amadio, archeologa.
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