«Selfie e dittatura dell’immagine»

L'ANALISI di Giuseppe Fedeli: «"Io mi faccio un selfie, tutti si fanno un selfie, io sono tutti": con questo sillogismo (post)aristotelico si gioca l'ingannevole sintesi della società di oggi, dominata dall’avvento dei socia, e dei suoi innumerevoli tentacoli, che portano alla decostruzione della personalità»

Giuseppe Fedeli

di Giuseppe Fedeli *

«C’è una sostanziale differenza tra cercare gli altri e farsi vedere da questi ultimi: il selfie ha proprio quest’ultima funzione, quindi qualcosa di puramente egocentrico» (U. Galimberti)

«”La dittatura dell’immagine e, segnatamente, del selfie rappresenta uno dei leit motiv della società attuale. «Scatto quindi sono»: declinazione dell’homo technologicus, l'”homo videns” incarna il punto più alto, ergo morboso, del narcisismo. In una compulsione del possesso delle immagini, si tende a volersi rappresentare da soli «per paura che l’altro possa dire qualcosa di sbagliato o di male nei propri confronti (…). Chi guarda sé stesso è fuori da ogni relazione. Solo l’altro dice chi siamo: fin dai tempi dei greci e dei latini, la relazione con l’altro è qualcosa di fondamentale e ci rappresenta, in un modo o nell’altro” (U. Galimberti). Per Lévinas, ciò che caratterizza l’uomo è la sua “inevitabile possibilità” di rapportarsi all’Altro, che non può essere ricondotto all’io, perché resta sempre esteriore alla coscienza, situato al di là di essa.

L’epifania, e dunque la manifestazione dell’Altro, avviene nel dialogo. L’Altro è, quindi, una rivelazione concessa in particolare dal volto, che è il mezzo di comunicazione primo e lo strumento attraverso il quale l’umanità di ciascuno si manifesta. Oggi, invece, si assiste a una svalutazione dell’identità in questa “gara” a “essere” per la (altrui) fruizione del corpo di chi lo ostende, che in realtà è un’autocelebrazione che non si pone in contatto/relazione con l’altro-da-sé. Tutto si consuma nell’istante racchiuso in uno scatto, in una idolatria dell’ego, nella illusione che dall’altra parte dello schermo i followers facciano “essere” il tuo volto (sineddoche del corpo, metafora dell’io). Il prosopon (nel senso ampio di “farsi prossimo all’altro”), di matrice ellenica, è stato riposto in soffitta: “Io mi faccio un selfie, tutti si fanno un selfie, io sono tutti”: con questo sillogismo (post)aristotelico si gioca l’ingannevole sintesi della società di oggi, dominata dall’avvento dei socia, e dei suoi innumerevoli tentacoli, che portano alla decostruzione della personalità. Mutuando un’espressione di Benjamin, il selfie è una nevrosi che produce l’articolo di massa dell’economia politica digitale. In altre parole, una coazione a ripetere senza esiti né vie d’uscita. Iperbole mediatica che ricorda le ombre proiettate all’interno della caverna nel racconto platonico, bisogna uscire da questa proiezione-di-vita, congelata in un non-vissuto, per ritrovarne il sapore autentico: senza frapposizioni o diaframmi, che fanno irrimediabilmente fuggire l’attimo dal “qui e ora”, per fissarlo in una immagine, destinata all’oblio. Che non racconta della persona che si è autoritratta, bensì di un simulacro, di un paradossale “vivere il presente in differita”, che si auto-confina nella visione sullo schermo del device. Prima ancora di essere soggetto, l’uomo, ci tengo a ribadire, è coinvolto in una relazione con i propri simili, relazione che è etica prima che sociale o politica. Morale: non fotografiamo la vita, mentre fugge altrove…».

* giudice


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