Nassiriya, a Montegranaro il superstite Di Giovanni: «Trasmettiamo ai giovani i valori dei miei colleghi scomparsi» L’intervista

MONTEGRANARO - Giornata all'insegna del ricordo e dell'omaggio, quella di ieri, alle vittime della strage in Iraq. Scoprimento, dopo la santa messa, di una targa in ricordo delle vittime di Nassiriya alla presenza di un superstite, il maresciallo Paolo Di Giovanni: «Quello che non è mai passato è il vero valore di quanto si facesse in quei contesti, c'è bisogno di approfondire questo: chi erano e cosa facevano i miei colleghi, la loro immensa umanità che si percepiva. Questo può fare la differenza nel ricordare quanti hanno sacrificato la propria vita»

di Laura Cutini

Montegranaro, ieri, ha ricordato i martiri di Nassiriya scoprendo una targa a memoria della strage avvenuta venti anni fa in Iraq (era il 12 novembre 2003) nella quale morirono 28 persone fra militari e civili, per la maggior parte carabinieri in forze alla base italiana “Maestrale”, 12 in totale. Ci furono anche dei sopravvissuti, fra questi il maresciallo Paolo Di Giovanni, ospite della giornata, voluta fortemente dall’associazione Carabinieri in congedo in onore della giornata dedicata alla “Virgo Fidelis”. In mattinata dunque si è svolta la cerimonia, dapprima la messa, poi la deposizione della corona presso il monumento in memoria del generale Dalla Chiesa, che ha visto tanta partecipazione di pubblico. Successivamente, la passeggiata  verso il campo Boario dove è avvenuto lo scoprimento della targa ad opera dell’artista locale Paola Iannucci dedicata ai martiri della strage per cui ricorre proprio quest’anno il ventesimo tragico anniversario. 

«E’ stata una bellissima cerimonia, organizzata molto bene dall’associazione Carabinieri in congedo – afferma il primo cittadino Endrio Ubaldi – molto toccante, ed ha visto ampia partecipazione di pubblico, con la presenza del maresciallo Paolo di Giovanni che ha ripercorso quei dolorosi momenti. Una giornata piena di contenuti». Si associa alle parole del sindaco anche il presidente del Consiglio comunale, nonché consigliere Niccolò Venanzi: «Una manifestazione molto sentita, vorrei ringraziare il sindaco di Torre San Patrizio, Luca Leoni che ci ha messo in contatto con il maresciallo superstite della strage di vent’anni fa, oltre l’amministrazione tutta e l’associazione Carabinieri in congedo che collabora sempre attivamente con il comune. Una testimonianza molto toccante quella di Di Giovanni, è stato un  onore per noi averlo ospite qui a Montegranaro in questa giornata”. 

E’ proprio il maresciallo Paolo di Giovanni, abruzzese di Pescara, medaglia d’ oro come vittima di terrorismo, uno dei sopravvissuti alla strage di Nassiriya a rendere il senso della giornata in memoria delle vittime della strage in Iraq. Grazie all’intensità delle sue parole e alla maniera in cui, da testimone diretto riesce a comunicare tutta la potenza di questo incredibile ricordo dove solo per un caso è riuscito a salvarsi, anche noi possiamo comprendere il senso delle missioni di pace dei soldati italiani nel mondo e il valore del loro immenso sacrificio. 

Maresciallo, è un onore averla a Montegranaro, innanzitutto grazie per la sua presenza e preziosa testimonianza, cosa può dirci dopo vent’anni dalla strage di Nassiriya in cui morirono tanti soldati italiani in missione di pace, cosa rimane oggi di quel tragico evento? 

«In un paese come il nostro e soprattutto in paesi piccoli come questo che sono il nucleo e l’essenza della nostra società, creare queste piattaforme complete di storia, sono dei segni di vivacità sociale, di capacità di trasmettere soprattutto alle generazioni più giovani che non sanno o non ricordano, il valore del sacrificio di chi ci ha preceduto. Credo, come scrissi anche in una nota qualche anno fa al Presidente della Repubblica, che un paese che non ha ricordo, che non ha memoria, è destinato all’oblio. Noi viviamo di questo, ricordarlo quindi, ed essere capaci di raccontarlo ai giovani è fondamentale. Ecco perché partecipo sempre con interesse, impegno e convinzione».

 

Qual è il ricordo dell’esperienza vissuta che ha inevitabilmente segnato la sua vita?

«Venti anni sono tanti, per la nostra storia non sono niente. Abbiamo la tendenza a dimenticare determinati passaggi, ma il compito di questi eventi è cercare di ricordare non tanto chi è rimasto ferito ed è sopravvissuto, noi siamo silenti da venti anni come è giusto che sia. E’ molto più importante ricordare chi ha dato la vita per questo. Siamo abituati a volte a dare per scontato che ci sia chi perde la vita per altri e non gli diamo la giusta importanza, il giusto peso. Abbiamo l’onere e l’onore anche di ricordare tutto questo, per loro che non ci sono più. Questi vent’anni sono serviti per ricordare sempre il sacrificio che è stato fatto. Io sono sempre in contatto con le famiglie dei superstiti, leggo ancora nei loro occhi, anche se è passato del tempo, l’orgoglio, la fierezza per i loro cari. E’ questo il messaggio che deve arrivare a chi ci ascolta, in primo luogo i giovani».

 

Lei è un portavoce attivo di questo ricordo, quanta parte dei suoi racconti arriva veramente al pubblico? 

«Troppo spesso dai racconti di Nassiriya sono rimasti esclusi dei passaggi fondamentali, si è parlato tanto della cronaca dell’evento, perché giornalisticamente era più interessante, ma non si è mai riusciti a penetrare nei momenti più intimi della vita durante la missione. C’è la tendenza a pensare che chi fa missione all’estero “faccia la guerra” o che sia un supereroe, o uno sceriffo armato. Quello che non è mai passato è il vero valore di quanto si facesse in quei contesti, c’è bisogno di approfondire questo: chi erano e cosa facevano i miei colleghi, la loro immensa umanità che si percepiva. Questo può fare la differenza nel ricordare quanti hanno sacrificato la propria vita. Non solo in missione, ma anche nei paesi dove l’Arma dei Carabinieri è presente con le sue piccole unità in oltre cinquemila città italiane: si opera in Italia ed all’estero nella stessa maniera. Il modello umano ed operativo è sempre lo stesso, questo fa si che ci riconoscano ovunque, c’è apprezzamento e gratitudine. I nostri colleghi degli altri paesi partner ci chiedono sempre di intervenire per le fasi di riequilibrio, soccorso e di assistenza. E’ ciò che cerco di raccontare ai ragazzi».

 

Può darci testimonianza di questo?

«Le faccio un esempio. Uno dei miei colleghi che è deceduto nella strage, Giuseppe Coletta, aveva già perso un figlio piccolo a causa di una leucemia qualche anno prima. Decise di venire in missione, aveva già una sensibilità aumentata probabilmente a causa di questo tragico evento della sua vita personale. Ha approcciato direttamente, senza che fosse suo compito istituzionale, l’ospedale pediatrico locale in Iraq e grazie al supporto di un’associazione, riuscì a far arrivare delle incubatrici dall’Italia, che lui in prima persona donò all’ospedale di Nassiriya. Così ne potrei raccontare molte altre di storie. Queste cose vanno oltre, fanno parte della nostra cultura, dell’italianità e dobbiamo esserne tutti orgogliosi. Sono fatti che non si conoscono ed ho il dovere di continuare a raccontarli». 

Lei come riuscì a salvarsi? 

«Non lo so ancora, fu fortuna probabilmente. Non saprei spiegarmelo, il botto fu fortissimo, tra l’altro ero uno dei pochi all’interno della caserma, considerato che dovevamo essere quasi tutti fuori. Della mia squadra ero l’unico dentro, a circa quindici metri dall’esplosione al piano superiore, nel lato dell’edificio proprio rivolto all’ingresso dove avvenne l’esplosione. Ho avuto delle lesioni importanti, ma la mia fortuna fu che non persi mai conoscenza e nel momento in cui mi sono accorto di essere stato seriamente ferito, mi sono attivato con tutte le forze rimaste, sono riuscito ad allontanarmi dalla struttura a piedi e a raggiungere l’altra base parallela. Così è andata».

 


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