di Giuseppe Fedeli *
«Alle 11 in punto del 3 gennaio 1954, con tre cerimonie inaugurali (Milano, Torino e Roma), iniziano ufficialmente le trasmissioni della Rai, Radio Audizioni Italiane, la società concessionaria del servizio pubblico radiofonico e televisivo in Italia. Tocca all’annunciatrice Fulvia Colombo pronunciare le prime parole: «La Rai, Radiotelevisione Italiana inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive».
«Mercoledì 3 gennaio la tv pubblica ha compiuto settant’anni. Impostasi al suo esordio come “maestra” per l’alfabetizzazione di frange della popolazione prive di istruzione, la sua connotazione precipua era mettere in comunicazione fra loro gli spettatori, in una sorta di “flusso di coscienza” collettivo, svincolato dalle regole della grammatica o dai limiti del linguaggio. Poiché, dato il costo del mezzo, in pochi si potevano permettere di averla in casa, letteralmente incollata a quella piccola scatola, la gente si ritrovava nei bar e in altri luoghi di ritrovo, dove troneggiava il miracolo di una tecnologia ancora in fasce. Dapprincipio, il canale a disposizione dell’utenza era uno solo, via via si arrivò a tre, i programmi si arricchirono di varietà, Rischiatutto, Canzonissima, un modo per divertire, attraverso una sorta di “codice”. Fin quando, negli anni settanta, le immagini in movimento non si colorarono. Attraverso una purtroppo non sempre trasparente informazione, la televisione ha raccontato vizi e virtù, abitudini e costumi del popolo italiano: dalle immagini, dal modo di apparire, dal mitico Carosello (l’equivalente in poesia dell’anima prosaica del commercio, che è oggi la sempre più invadente pubblicità), attraverso un sapiente gioco di intrattenimento, si fanno “immagine in movimento” i cambiamenti della civiltà di un Paese, reduce da due conflitti mondiali. È stata la tv a dettare e all’un tempo rispecchiare, vestali le sue soubrette e i suoi conduttori, gusti, modi e mode. Così “unificando” lingue e dialetti, in una lingua comune. Col passare del tempo, la concorrenza di altri network privati ha espropriato la tv pubblica del suo monopolio, e della intelaiatura che ne faceva, al pari della radio, la cui fascinazione era però diversa, più evocativa, l’unica, inimitabile, indispensabile finestra sul mondo. La tv assume caratteristiche marcatamente commerciali, e da bussola che era, si fa contenitore di “varietà”, infarciti di “ricchi premi e cotillon”, dalla qualità sempre più discutibile, i quali, sfruttando il volano della pubblicità, sempre più introitano soldi, obiettivo che si piazza al primo posto, ancor prima che il servizio sbarchi nello “spam” della casa del Grande Fratello, o nelle Isole dei “famosi” e, aggiungerei io, “fumosi”, in cerca di pietosi riscatti. Con intrecci e combine, non certo lodevoli, con la politica e, in progresso di tempo, il politicamente corretto. Fino a spettacolarizzare deprecabilmente il dolore altrui, ad aumentare l’audience, o a diventare arena per baruffe, non infrequentemente da pollaio. A livello tecnologico, la digitalizzazione, e l’avvento dei nuovi media sferra il colpo finale. mi riferisco alla tv a pagamento (on demand, o pay tv), con una offerta smisurata di programmi film e serie televisive. Insomma, la tv, all’esito di una inevitabile metamorfosi, da offerta, domanda, ha perso la valenza simbolica che le era propria, ha perso quel nodo che intrecciava fra loro destinazioni e destini, riflettendo sullo schermo povertà e nobiltà, lacerazioni e speranze di tutto lo Stivale, fino a farsi emula di modelli oltreoceano, puro trash. Far riguadagnare a questo mezzo il ruolo di “voce”, sganciata da ogni parrocchia e conventicola, di mezzo di infotainment non partigiano, affrancato da interessi e carretti politici, è l’auspicio di chi conosce le potenzialità di una delle più formidabili invenzioni di tutti i secoli . E allora, la tv torni ad affascinare chi, se anche non può ricordarne i primi audaci “progetti”, riconosce il marchio di fabbrica con cui questa finestra di “sogni” e “visioni” fu tenuta a battesimo».
* giudice
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