«Guerra e strategie mediatiche»

IL PUNTO di Giuseppe Fedeli: «Nel narrare gli eventi bellici, spesso si utilizzano inquadrature strategiche per trasmettere messaggi e influenzare la percezione del pubblico»

 

Giuseppe Fedeli

di Giuseppe Fedeli * 

Nel narrare gli eventi bellici, spesso si utilizzano inquadrature strategiche per trasmettere messaggi e influenzare la percezione del pubblico. Vediamo alcune delle tattiche utilizzate:

  1. Inquadrature di prossimità:
    • L’avvicinamento a volti o oggetti può creare un senso di intimità o coinvolgimento emotivo. Nelle scene di guerra, questo può far sentire lo spettatore più vicino all’azione o ai personaggi coinvolti. 
  2. Inquadrature grandangolari:
    • Le lenti grandangolari catturano un’ampia area e possono essere usate per mostrare ampie distese di terreno, campi di battaglia vasti o scene di distruzione. Questo può enfatizzare l’entità dell’evento bellico. 
  3. Inquadrature dal basso:
    • Riprendere da una prospettiva bassa può rendere i soggetti più imponenti e potenti. Ad esempio, un soldato che marcia o un generale che dà ordini può apparire più dominante. 
  4. Inquadrature dall’alto:
    • L’opposto delle inquadrature dal basso, queste possono far sembrare i soggetti più vulnerabili o sottomessi. Ad esempio, un soldato ferito o un civile terrorizzato. 
  5. Inquadrature di dettaglio:
    • Concentrandosi su particolari come armi, uniformi sporche, volte sudate o occhi spaventati, la televisione può trasmettere l’intensità e la crudeltà della guerra. 
  6. Inquadrature di massa:
    • Mostrare folle di persone, soldati in formazione, o città distrutte può evidenziare l’impatto collettivo della guerra sulla società. 
  7. Inquadrature statiche:
    • Inquadrature stabili e fisse possono creare un senso di rigidità o stasi, riflettendo la gravità degli eventi bellici. 

In sintesi, attraverso queste inquadrature, si cerca di comunicare emozioni, potere, vulnerabilità e l’ampiezza dell’impatto della guerra sulla vita umana.

Così il giornalista Ennio Remondino sul rapporto simbiotico che, in questi anni, vi è stato tra guerre e televisione. “La televisione non ha certo inventato la guerra, ma ne è diventata ormai la sublimazione, lo strumento indispensabile per confermare o distruggere le ragioni stesse di un conflitto, per esaltarne valori (o bugie) etici e umanitari, per enfatizzare un atto esemplare”.

La guerra è l’immagine di una donna che si sposta a zigzag, di corsa, lungo una via di Sarajevo, sotto il tiro dei cecchini. È l’inquadratura di una strada petrosa e deserta, ai margini della quale sono abbandonati, come mucchi di stracci, corpi di uomini emaciati, barbuti. È una muta sequenza che mostra un aereo conficcarsi in un grattacielo, sullo sfondo di un cielo naif. Senza la tv, la guerra sarebbe diversa, anzi, forse non esisterebbe, come suggerisce provocatoriamente l’autore ricordando i tanti conflitti, riguardanti zone poco interessanti del pianeta, liquidati come “scontri locali” in scarni trafiletti di giornali e agenzie stampa. La guerra è un evento mediatico, che incolla il pubblico al teleschermo, e i network la inseguono con grande dispiegamento di mezzi tecnologici. Ma anche le più importanti operazioni militari hanno bisogno della televisione, perché “le guerre non si fanno più soltanto per vincere, ma soprattutto per convincere”. E le telecamere diventano in questo senso una delle forze schierate sul campo di battaglia, l’arma più adatta a creare il consenso, a condizionare – e a manipolare, sopra tutto – l’opinione pubblica. Al centro non è il fatto in sé, ma l’inganno delle immagini, le “trappole” delle fonti ufficiali, gli impacci-e i dispacci- delle politiche redazionali. In parole povere, una tv che “commercializza” la guerra, e un multiforme  esercito di uomini e donne, in lizza per arrivare per primi sul posto, quasi sempre allo stremo delle forze, ma con in mano un paradossale trofeo.

 

* giudice

 


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