«La rivoluzione culturale di Franco Basaglia»

L'ANALISI di Giuseppe Fedeli: «A Basaglia si deve la sfolgorante intuizione che i modi di essere della follia, pur immersi nel dolore e nella solitudine, nella nostalgia e nella speranza di essere accompagnati nel loro cammino, devono essere umani. La follia come possibile compagna di strada è in ciascuno di noi, talora come matrice di fragilità e di sensibilità. Solidarietà, dialogo, presenza umana e ascolto del silenzio: un “plurale” che purtroppo rischia di perdersi nei paludamenti di una burocrazia, ingessata nei suoi algidi meccanismi»

Giuseppe Fedeli

«La rivoluzione culturale di Franco Basaglia»

“Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto”- Franco Basaglia 

Cento anni fa nasceva Franco Basaglia, il grande psichiatra, medico, filosofo, umanista e rivoluzionario, che abbatté i muri dell’esclusione; il 13 maggio 1978 veniva approvata la legge 180, detta, dal nome di chi la concepì, legge Basaglia. Si diceva, e ancora oggi si dice: “Matto da legare». Prima di Franco Basaglia e della sua rivoluzione, quell’espressione non era affatto una iperbole: nei vecchi manicomi si veniva legati davvero. Così scriveva un internato: “Dovevi stare fermo, immobile nella contenzione, come un giocattolo rotto che nessuno può più aggiustare, buono solo per la demolizione. Nel frattempo ti avevano annientato, con la violenza degli elettroshock, con la brutalità delle lobotomie, ti avevano inoculato il virus della malaria o una siringa di insulina per calmarti, imbottito di cloroformio e di psicofarmaci e poi buttato via, lungo i corridoi squallidi e screziati dal neon degli istituti di cura, a fissare il vuoto e farfugliare lamenti, a dimenticare te stesso, come una creatura mostruosa, da nascondere al resto della società, allo sguardo dei “sani”. La totale mancanza di specchi all’interno dei quasi cento ospedali psichiatrici della penisola non rispondeva solo a rigidi protocolli di sicurezza ma era anche la crudele metafora di un sistema che cancella l’identità personale che ti spossessa rendendoti poco più di un oggetto animato”. Quella di Basaglia è stata anzitutto una rivoluzione culturale, prima che scientifica. Lo psichiatra affermava il riconoscimento della persona del malato mentale, una persona che in molti casi era in grado di comprendere l’importanza della cura del sé, per ravvivare i rapporti sociali. Quando nel 1961 accetta di dirigere l’ospedale psichiatrico di Gorizia, si trova di fronte un film horror: un dedalo nei cui corridoi vagano automi privati di ogni volontà. In Italia i manicomi erano stati istituiti con la legge 36 del 1904 varata dal governo Giolitti, un testo agghiacciante, che pone sotto custodia «le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo»; una costellazione buia di outsider e diversi, quasi tutti appartenenti alle classi sociali più povere e indifese.

 

Di fatto, anche dopo il varo del codice Rocco, le strutture mediche svolgevano funzione di pubblica sicurezza, e nessuna si poneva come obiettivo il miglioramento della salute dei pazienti. Forte di una solidissima formazione umanistica, per Basaglia l’essere umano diventa il cardine dei suoi interessi (e aneliti) intellettuali: in tal senso aveva approfondito, facendo sua, la fenomenologia di Edmund Husserl e la sua variante francese (Maurice Merleau Ponty), di poi l’esistenzialismo di Karl Jaspers e Jean Paul Sartre: correnti che rimettevano al centro della propria speculazione il corpo umano, non più corpus mechanicum, mera biologia, ma corpo recuperato alla dimensione di “persona”, cosciente, espressione non separata del vissuto e della soggettività di ogni individuo. Così oscurando le “magnifiche sorti e progressive” del positivismo scientista e lombrosiano, specie accademico, che si sostanziava nella tesi organicistica: che vede la malattia mentale come la conseguenza di tare biologiche congenite. Fieramente osteggiato, il suo primo gesto da direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia è, coup de scène, l’abolizione della contenzione; nessun paziente deve più essere legato, le porte delle stanze vengano lasciate aperte, via le reti, le recinzioni, ogni forma di ostacolo materiale. Prosegue la narrazione: “Eppoi un comodino per tutti, da mettere al fianco dei letti con una piccola luce per poter leggere libri o giornali, un armadietto dove riporre gli oggetti personali, uno specchio dove ritrovare la percezione visiva di sé, e pazienza se qualcuno si farà male, sono in un ospedale e saranno in grado di curarlo. Nella riconquista dell’identità spogliata e offesa dalle istituzioni sanitarie anche il cibo rappresenta un passaggio cruciale: i pasti non saranno più uguali per tutti, i pazienti possono scegliere cosa mangiare tra una lista di pietanze”. Via via anche gli infermieri, sulle prime scettici, si rendono conto che “gli stessi malati ora sembrano meno malati e lontani, con qualcuno di loro si può persino chiacchierare, può nascere addirittura un rapporto, uno scambio, un affetto”.

La legge 180 del 1978 impone la chiusura definitiva dei manicomi, che verranno sostituiti dagli istituti pubblici di igiene mentale. Si compie così la rottura con la vecchia psichiatria cautelare, ridefinendo alla radice i concetti di patologia mentale e intervento psichiatrico; nessuna terapia deve più violare i diritti della persona, ma mettere al centro la cura, il recupero e il reinserimento sociale dei pazienti. Si tratta di una delle norme più importanti dell’intera storia repubblicana, unica nel suo genere, che fa dell’Italia il primo e a tutt’oggi il solo paese al mondo ad aver abolito per sempre l’abominio degli ospedali psichiatrici. Un tentativo riuscito, quello di ricollocare la “follia” nel cerchio della normalità?- ci domandiamo oggi. A Basaglia si deve la sfolgorante intuizione che i modi di essere della follia, pur immersi nel dolore e nella solitudine, nella nostalgia e nella speranza di essere accompagnati nel loro cammino, devono essere umani. La follia come possibile compagna di strada è in ciascuno di noi, talora come matrice di fragilità e di sensibilità. Solidarietà, dialogo, presenza umana e ascolto del silenzio: un “plurale” che purtroppo rischia di perdersi nei paludamenti di una burocrazia, ingessata nei suoi algidi meccanismi. 

Giuseppe Fedeli, Giudice


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