“Tutti ne avevano uno” Storie di Resistenza non armata nel Fermano

FERMANO - Dodici le interviste raccolte da Simona Corvaro in Contrada San Girolamo, due a Caldarette d’Ete, una a Porto Sant’Elpidio, per un insieme di storie che parlano di solidarietà, aiuto, generosità di famiglie fermane nell'accogliere alleati, alcuni scappati dai campi Pg70 (Fermo) e Pg 59 (Servigliano) nonostante i pericoli che avrebbero e i rischi che avrebbero corso 

Simona Corvaro

Sono stati sette-otto giorni da noi erano tre inglesi, uno si chiamava Aldo, uno Luigi, l’altro non me lo ricordo. Erano assetati pori fiji, gli abbiamo dato da bere e da mangiare, mio padre gli ha detto: -Io cocchi ve raqquisto, cuscì raqquistesse qualcuno lu fiju miu-. Di mio fratello Aurelio erano diciassette mesi che avevamo notizie”. 

Questa è una delle testimonianze raccolte nel libro “Tutti ne tenevano uno”, storie di resistenza non armata (o resistenza civile) avvenute, per la maggior parte di esse, in zona San Girolamo a Fermo.

Per l’autrice, Simona Corvaro, dottoressa in storia contemporanea, tutto nasce dal ritrovamento in un cassetto del comò della nonna, di un Certificato Alexander intestato a suo nonno, Filippo Corvaro.

Tale attestato era un riconoscimento conferito dopo la Seconda Guerra Mondiale dalle forze alleate ai patrioti italiani e deve il suo nome al maresciallo Harold Alexander, comandante in capo delle forze alleate in Italia. A Filippo fu assegnato anche un certificato in più, da parte del Governo Militare Alleato, Simona capisce che suo nonno deve aver fatto qualcosa di veramente encomiabile, chiede in casa ma le sanno raccontare poco e sul vago, allora decide di indagare sulla questione per conto suo. Scopre che suo nonno, ha dato rifugio ad un inglese scappato dal campo di concentramento PG70 (quello Fermo-Monte Urano), inizia a chiedere ai suoi vicini di casa, dalla prima signora a cui racconta questa si sente rispondere “tutti ne tenevano uno”, frase che poi darà il titolo al libro. 

Dodici le interviste raccolte in Contrada San Girolamo, due a Caldarette d’Ete, una a Porto Sant’Elpidio, per un insieme di storie che parlano di solidarietà, aiuto, generosità nonostante i pericoli che avrebbero e i rischi che avrebbero corso. 

Molti i prigionieri alleati salvatisi, scappati dai due campi di concentramento della zona, il PG70, appunto, e il PG59 cioè quello di Servigliano (oggi divenuto monumento nazionale) trovando rifugio e protezione in case di campagna, presso contadini, affamati loro stessi da una guerra in cui avevano perso le tracce persino di familiari e amici. Gente semplice e umile che nonostante gli stenti, il dolore, le bombe, non ha mai rifiutato di dividersi un pezzo di pane con chi aveva bisogno. 

Un senso civico che sorprese persino gli inglesi che trovarono protezione e che, una volta tornati in patria, raccontarono stupiti di come, nonostante la povertà, la gente fosse stata disposta ad aiutare. È appassionata la Corvaro quando ci racconta di questo suo percorso alla scoperta di un fatto così importante per la resistenza non armata italiana avvenuto nel nostro territorio fermano, tre gli anni impiegati per la stesura del suo libro tra ricerche, interviste, approfondimenti.

Siamo sicuri che nonno Filippo, che lei non ha conosciuto perché morì quando lei aveva solo sedici mesi, sarebbe fiero della traccia lasciata da sua nipote su questo importante passo della nostra storia, anche se «è quasi sicuro che – le parole della Corvaro – mi avrebbe detto “era semplicemente una cosa che andava fatta. Perché tu se ti fossi trovata nella stessa situazione non avresti fatto la stessa cosa?». Parole sulle quali dovremmo riflettere analizzando l’umanità nell’attuale epoca storica. 

Antonietta Vitali

 


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