Giuseppe Fedeli
di Giuseppe Fedeli *
Domus
C’era una volta una casa
in un mare di ginestre,
una casa
-noi-
e l’antica sera.
Venne novembre
poi
una folata di primavera.
I capelli radi
affacciati alle finestre
ci ritrovammo
ch’era autunno.
Sui nostri addii
la luna si spense.
La casa (la domus latina, da cui duomo) è il nido, metaforicamente, è la dimensione più intima all’uomo (onde abitare, habitus, abitudine). Rifugio e, talvolta, prigione dal punto di vista psicologico, quando le mura si stringono sulla “vittima”, fino a toglierle il fiato, e non v’è scampo all’assalto dei fantasmi, resta sempre il focolare dove trovare riparo. Versi oracolari scriveva Borges: “Ogni dimora è un candelabro dove ardono in appartata fiamma le vite”. Ma la casa è anche (l’)”altro”. Ovverosia, nella dimensione domestica, si intrecciano odio e amore, fragilità e gelosie, rivalse e rese di conti: negatività e positività, che qui toccano l’acme, a volte il punto di non ritorno. Viceversa, la vita “fuori” è più “sterilizzata”, stilizzata, nulla avendo a che vedere con l’abito che intrama il ménage familiare (e comunque con l’habitus e le abitudini di persone che convivono). La casa (in inglese home) è un contenitore, che può essere una bomba ad alto innesco, dove il sangue pulsa indomito nelle vene, e non ci si può sottrarre a un confronto senza maschere. Senza maschere né infingimenti. Né pietà. La verità non può essere ingannata, e, se anche la si dissimula, prima o poi mostrerà il suo volto, ghignante o splendente, a seconda delle circostanze. Intra domus moenia (dentro le mura della casa) si deve incontrare, prima che l’ altro-da-sè, il proprio sé: infinità finita, diceva la Dickinson. Il compito più arduo che all’uomo sia toccato in sorte.
* giudice
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