di Giuseppe Fedeli *
Festeggiare la notte del 31 dicembre ci ricorda l’importanza del tempo che passa, della speranza e della rinascita.
La notte di San Silvestro si lanciano botti, si fanno esplodere giochi pirotecnici, in un fantasmagorico carosello. La cieca iperbolica baldoria è, nondimeno, un contrappeso/contrappasso alla noia di vivere, al non senso di un di-vertimento di-sperato, che punta sull’eccesso per (correlato) difetto di senso.
L’euforia di un attimo, di una parentesi di insana insania, a cavallo fra l’ultimo giorno dell’anno che s’accomiata e il primo dei trecentosessantacinque (bisesto permettendo) dì, che si accampa gagliardo sullo scenario, lascia via via il posto alla malinconia, alla desolazione dell’essere soli, quale condizione costitutiva dell’essere uomo.
È il senso di nullità che si prova dopo la stordente orgia. La strada del ritorno è disseminata di cocci e macerie di un passato che va buttato insieme ai piatti e alle masserizie, per non restarne vittime: un passato che divora il presente -recalcitrante alla “presa”-, e slitta nel presente del futuro. È la tematica, o, per meglio dire, la stimmung del sabato del villaggio. Svago demenziale? Senza assolutizzare, e fuori da ogni tentazione calvinista, il passaggio da un anno a quello successivo è, da sempre, all’insegna della tradizione, con riti a volte locali, altre volte scanditi dal tam tam del villaggio globale: che – dal punto di vista delle etnie che popolano il pianeta- di globale non ha niente, se si eccettua l’habitus scaramantico e, specularmente, di propiziazione augurale, che appartiene all’inconscio collettivo: vale a dire, l’ossequio a riti e miti che celebrano il dionisiaco, e, in ultima analisi, serve a tenere distante l’ombra, che segue fedele i passi del viandante.
* giudice
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