di Giuseppe Fedeli *
La biopolitica e il controllo sulla vita umana: il confine tra arbitrio individuale e responsabilità collettiva
(parte prima)
Incipit
La salute degli individui diventa oggetto del potere dalla seconda metà del XVIII secolo, allorché le esigenze del nascente capitalismo pongono il corpo – inteso come forza lavoro produttiva – al centro di un paradigma politico basato sulla medicalizzazione della società: il potere si prende cura di tutti e di ciascuno, attraverso un uso sempre più capillare dei corpi. Se, tuttavia, la diade medico-malato è caratterizzata da un rapporto asimmetrico e non reciproco, il malato, alienandosi nel medico, si sottomette alla volontà di questo. La diade è, quindi, il luogo in cui le alienazioni si annodano e si sciolgono.
Michel Foucault, filosofo francese noto per le sue analisi delle dinamiche di potere e delle istituzioni sociali, ha sovente intersecato le traiettorie della medicina e della salute, grazie ad una serie di studi svolti già negli anni Sessanta (per tutti, “Nascita della clinica. Un’archeologia dello sguardo medico”, 1963), che hanno indagato il costituirsi della malattia e della follia come “oggetti scientifici”. Uno dei suoi concetti chiave è quello di “biopolitica”, che si riferisce al modo di esercitarsi del potere sulla vita degli individui e delle popolazioni. La biopolitica, secondo Foucault, emerge nel XVIII secolo e si concentra sulla gestione della vita, della salute e della riproduzione delle popolazioni. A differenza del potere sovrano, che si esercita attraverso la legge e la punizione, la biopolitica si occupa di regolare la vita quotidiana, influenzando aspetti come, appunto, la salute pubblica, l’educazione e la sessualità.“Il controllo della società sugli individui non si effettua solo attraverso la coscienza o l’ideologia, ma anche nel corpo e con il corpo. Per la società capitalista è il bio-politico a essere importante prima di tutto, il biologico, il somatico, il corporale. Il corpo è una realtà bio-politica; la medicina è una strategia biopolitica“ (così il filosofo).
Attraverso una progressiva desoggettivizzazione (ergo spersonalizzazione del rapporto intersoggettivo), il potere si prende cura di tutti e di ciascuno, mediante un uso sempre più capillare dei corpi. Secondo Foucault, questo processo inizia già alla fine del XVIII secolo, quando nascono le prime politiche urbanistiche, securitarie e sanitarie come forme di controllo sociale: ospedali, manicomi, sanatori e prigioni divengono dispositivi per proteggere le popolazioni dalle epidemie all’interno di determinati spazi urbani, ma anche e soprattutto per suddividerle (alcune popolazioni vengono privilegiate rispetto ad altre, in tal modo creando disuguaglianze), inquadrarle e quindi controllarle (si veda, dell’autore francese, il fondamentale saggio “Sorvegliare e punire”). Più di ogni altro pensatore del Novecento, egli ha dunque messo in discussione il rapporto tra medicina, economia e potere. I rischi della biopolitica possono, così, includere la gestione e il controllo eccessivo della vita umana da parte dello Stato o di altre istituzioni, portando a forme di oppressione e discriminazione. Foucault ci spinge a riflettere su come queste dinamiche influenzano le nostre vite quotidiane. Sorgono da qui interrogativi inquietanti, su tutti la domanda: dove si situa il confine tra arbitrio individuale e responsabilità collettiva?
* giudice
PS
Il focus della tematica, che verrà trattato nella seconda parte, sarà la diade medico/paziente, in cui si rimarcherà la necessità di uno stretto rapporto interpersonale fra l’uno e l’altro, a scongiurare il rischio della deriva irreversibile, in termini di spersonalizzazione, di detto rapporto.
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