Giuseppe Fedeli
di Giuseppe Fedeli *
I maturandi che si rifiutano di sostenere l’orale (parte seconda).
La presente riflessione non vuole “sconfessare” il mio precedente intervento su queste pagine. A riequilibrare le sorti, voglio solo spezzare una freccia a favore del corpo docente: degli insegnanti che ancora credono nella loro missione, investendovi tempo, energia e cuore. Il docens docens, animato dalla passione per la trasmissione di “valori” (e non di dati e e nozioni, che ne sono un semplice contorno) agli allievi, spesso ha davanti a sé una platea, figlia – il che è naturale…- dei tempi, priva di quegli slanci civili, etici; di quelle motivazioni, che fanno di ogni esistenza una corsa ad ostacoli, da superare uno dopo l’altro. Motivazioni che, a quanto ricordo, caratterizzavano la mia generazione (con le debite eccezioni che confermavano la regola). Oggi, l’adolescente (anche qui, eccettuata una minoranza) ha chiuso nel cassetto ogni ambizione, mandando in pensione l’eros, inteso come propellente di vita. Al fare gli adolescenti preferiscono il non fare, affrontare la vita è per loro troppo difficile, per cui essi (possiamo includere nel novero i maturandi) si rinchiudono dentro una camera, munita di ogni specie di ordigni elettronici, frapponendo fra sé e la realtà lo spessore di uno schermo.
Davanti a questa abulia, i docenti si trovano con le mani legate. Per cui, se è vero che il magister deve risvegliare il fuoco sacro in ciascuno dei suoi discepoli, nel momento in cui – complici le circostanze e la congiuntura di un mondo ormai alla deriva- l’allievo si chiude in sé, rifiutando di essere una grondaia nella quale far fluire limpida una parola sapienziale, innanzi tutto si rifiuta di crescere; ma soprattutto, al di là del furore iconoclasta (in nome del quale egli vanifica ogni formazione o educazione- la paideia dell’Ateneo del V sec. a.c.), così agendo fa del male a se stesso.
Posso capire che certi alunni si sentano sminuiti nel loro valore di persona, non ti sentano, cioè, capiti (la comprensione dell’altro purtroppo a volte rappresentando un limen invalicabile). Ma, sorge l’interrogativo: che non sia, forse, la levata di scudi di cui parlavo l’altra volta l’espediente più comodo, l’alibi “imperfetto” per sottrarsi alla prima vera prova della vita? Perché, non rispondendo all’esame orale (ovvero rifiutandosi di sostenerlo), i ragazzi compiono non tanto un beau geste, quanto una abdicazione alla vita stessa: inerti, apatici, non collaborativi, disinteressati alla loro stessa esistenza. Ricordo le sudate carte che sfogliavo prima dell’esame di Stato. Che ebbe, invero, un esito stupefacente. Io ci credevo nello studio. Col tempo, le evidenze e i meccanismi perversi di questo mondo mi avrebbero profondamente disillluso. Ma al fondo dell’impegno c’era una passione, la voglia di cambiare le cose, un quid, per cui valeva la pena lottare. Era l’amore per la sapienza, per il gusto di crescere apprendendo: sapere viene da sāpere, avere sapore, quindi gustare. Oggi non c’è più traccia di questo. Si registrano soltanto omissioni, a cospetto di una apatia, che porta chi cavalca questa tigre dalle zanne spuntate al rifiuto, non soltanto di svolgere consegne istituzionali, quanto di se stessi, della propria autostima. Della propria dignità.
* giudice
«Capitano, mio capitano…» e gli studenti che rifiutano di sostenere l’orale
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