«La democrazia è sotto assedio?»

Maurizio Petrocchi

di Maurizio Petrocchi *

La democrazia è sotto assedio?

Nel novembre del 1946, in un discorso che oggi risuona profetico, Guglielmo Giannini, fondatore del Movimento dell’Uomo Qualunque, rivendicava di aver saputo “conquistare questa folla, entrare nel suo cuore”, laddove i professori, con il loro “linguaggio astruso”, avevano fallito. Quella polemica con Benedetto Croce non era una semplice schermaglia intellettuale, anticipava una frattura che attraversa ancora oggi la democrazia italiana, quella tra élite e popolo, tra sapere e sentire, tra ragione e passione.
Ottant’anni dopo, l’Italia attraversa una fase di fragilità democratica che non può essere derubricata a normale fisiologia politica. Il radicarsi di forme di populismo autoritario e il riaffiorare di pulsioni neofasciste non rappresentano soltanto sintomi di malessere, ma una minaccia sistemica all’ordine liberaldemocratico. Non siamo soli, il nostro Paese si colloca all’interno di quella che Larry Diamond definisce “recessione democratica”, un fenomeno globale che negli ultimi venticinque anni ha eroso lentamente ma inesorabilmente le garanzie costituzionali.

Non servono più i colpi di Stato per incrinare la democrazia. Nell’epoca dei social e del consenso istantaneo, le regole possono essere aggirate dall’interno, attraverso un lento e calcolato logoramento dello Stato di diritto. Un processo silenzioso, che procede “a norma di legge”, e che proprio per questo è più difficile da intercettare e contrastare.
La democrazia mostra la sua vulnerabilità in due momenti critici. Il primo si manifesta quando il sistema perde legittimazione di fronte alla maggioranza dei cittadini, rischiando di degenerare in autoritarismo. Il secondo, più sottile ma altrettanto pericoloso, emerge quando la democrazia mantiene la propria legittimazione teorica ma perde la fiducia nella capacità della classe politica di rappresentare le vere esigenze collettive. È in questo secondo scenario che il populismo trova terreno fertile. Lo storico Federico Finchelstein sostiene che il populismo funge da ponte verso forme più esplicite di autoritarismo competitivo. Come ha spiegato, il populismo contemporaneo eredita dal fascismo la capacità di sostituire la realtà con il mito, adattandolo ai tempi di una democrazia elettorale. La strategia è raffinata, non si limita a falsificare un dato, ma costruisce un intero universo narrativo alternativo, in cui la verità è definita dal leader e ciò che la contraddice diventa “fake news” o “complotto”.

A differenza dei fascisti storici, i populisti accettano il verdetto elettorale e la possibilità di essere sconfitti, rinunciando alla violenza e all’esclusione definitiva degli avversari dal gioco politico. Non contestano la legittimazione delle istituzioni democratiche, ma chi le rappresenta. Tuttavia, questa distinzione apparentemente rassicurante nasconde un’insidia profonda.
Nelle forme più spregiudicate di “democrazia autoritaria”, il leader non rappresenta più il popolo: *si identifica* con esso. Chi dissente non è un avversario politico, ma un nemico della comunità. Ne deriva una delegittimazione sistematica di ogni contropotere, magistratura, stampa, opposizione vengono descritti come ostacoli alla volontà popolare.
Nati nel dissenso, i movimenti populisti tendono paradossalmente a considerare il dissenso degli altri un ostacolo, un limite, non più una risorsa democratica. Per combattere lo sradicamento sociale, le disuguaglianze e il disorientamento della società contemporanea, si sforzano di costruire un mondo dai significati univoci e immediatamente decifrabili, dove le relazioni umane siano semplici e trasparenti anziché opache e complesse.
Il modus operandi è riconoscibile e si manifesta attraverso pratiche che, pur mantenendo una parvenza di legalità, svuotano progressivamente la sostanza democratica:

– ricorso selettivo a procedure e cavilli per ritardare o svuotare controlli
– uso delle dichiarazioni ufficiali come scudi formali, anche quando si rivelano inesatte
– riunioni e decisioni rinviate finché la questione perde rilevanza
– premi e incarichi assegnati in base alla fedeltà, non alle competenze

Queste pratiche non fanno notizia come uno scandalo clamoroso, ma incidono profondamente sulla qualità democratica. La forma democratica resta intatta – si vota, il Parlamento è in funzione – ma la sostanza si svuota: pluralismo, separazione dei poteri e libertà di informazione arretrano.
A completare il quadro, un lessico bellico e moralizzante: “traditori”, “nemici”, “invasori”. Parole che trasformano il dibattito in un campo di battaglia, rendendo accettabili deroghe e scorciatoie in nome di un’emergenza perenne. Questo sogno di armonia, che promette di eliminare ogni indeterminatezza e ambiguità attraverso la “completa trasparenza”, evoca inquietanti precedenti storici. I regimi totalitari del Novecento perseguirono lo stesso obiettivo attraverso quello che è stato suggestivamente definito “stato giardiniere”, un potere che si dava il compito di sradicare le “piante infestanti” ed eliminare ogni imperfezione non conforme ai propri disegni.
Gli esempi internazionali sono eloquenti e inquietanti. Negli Stati Uniti, Donald Trump ha sistematicamente attaccato i media indipendenti e rifiutato il verdetto elettorale del 2020, segnando una rottura senza precedenti nella democrazia americana. In Brasile, Jair Bolsonaro ha combinato revisionismo storico, delegittimazione delle istituzioni di controllo e appello diretto alle forze armate.
L’Europa offre un laboratorio altrettanto preoccupante. Viktor Orbán in Ungheria e il Partito Diritto e Giustizia in Polonia hanno perfezionato forme raffinate di cattura istituzionale: controllo della magistratura, limitazioni alla libertà di stampa, manipolazione elettorale. In Francia, il Rassemblement National cresce costantemente, mentre in Germania l’Alternative für Deutschland penetra nella pubblica amministrazione e nelle forze dell’ordine, normalizzando un linguaggio che fino a ieri sarebbe stato impensabile.

L’Italia si inserisce in questa traiettoria con caratteristiche proprie. Negli ultimi anni abbiamo assistito all’intensificarsi di retoriche polarizzanti, all’uso politico di sicurezza e immigrazione come strumenti di consenso, alla compressione degli spazi critici attraverso querele temerarie e marginalizzazione di media scomodi. Parallelamente, si moltiplicano i segnali di normalizzazione di forze e simboli neofascisti, con una sottovalutazione sistematica del loro potenziale destabilizzante.
Le riforme istituzionali proposte – dal presidenzialismo alla revisione della giustizia – richiederebbero un dibattito pubblico rigoroso, ma rischiano di essere introdotte in un contesto di forte concentrazione del potere e debolezza degli organismi di garanzia. È un processo che può durare anni, e che spesso viene percepito solo quando i contrappesi sono già troppo indeboliti per reagire.
È stato probabilmente l’aggravamento della crisi economica che ha colpito l’Occidente a riportare in primo piano la questione populista, smentendo la diffusa convinzione che in una società ricca fosse sufficiente, anzi necessario, che la politica si limitasse ad amministrare.
Ma la politica non può essere solo competizione per la conquista del consenso, né può ridursi a pura capacità amministrativa. Deve essere molto di più, deve definire un progetto, un percorso di ricerca, un’identità. Occorre ricordarsi che si partecipa non solo per prendere parte, ma anche per sentirsi parte. La politica, per vivere, ha bisogno di convincere e coinvolgere, di interessare ed emozionare, ha bisogno di passione.
Come indicano alcuni studi, la tolleranza verso la corruzione sembra essere direttamente proporzionale al disincanto nei confronti dell’effettiva capacità delle istituzioni democratiche di tutelare l’interesse generale.
Di fronte a questo scenario, la difesa della democrazia richiede strumenti concreti come:

– *Trasparenza radicale* su atti e calendari istituzionali
– *Protezioni effettive* per chi denuncia abusi
– *Alfabetizzazione civica e informativa* per riconoscere menzogne ben confezionate
– *Media indipendenti* capaci di condurre inchieste senza temere ritorsioni
– *Giornalismo* capace di resistere a pressioni e intimidazioni
– *Sistema educativo* che promuova il pensiero critico
– *Opinione pubblica* informata e vigilante

Il potere politico dispone oggi di strumenti tecnologici e mediatici per aspirare a liberarsi dai controlli e vincoli che le istituzioni democratiche hanno reso sempre più stringenti nel corso della loro storia.
Ma come ha ricordato Zygmunt Bauman, c’è una risorsa fondamentale su cui possiamo e dobbiamo contare: il rumore. Il rumore, ovvero la discordanza di opinioni. Proprio l’influenza moderatrice della diversità dei valori e delle opinioni, la difesa del pluralismo, rappresenta la miglior medicina preventiva per impedire che la convivenza democratica possa drammaticamente degenerare.
L’insegnamento di Levitsky e Ziblatt è cristallino, le democrazie raramente muoiono per colpi di Stato improvvisi. Più spesso si logorano dall’interno, attraverso l’erosione progressiva delle regole non scritte che sostengono la convivenza democratica. Le istituzioni non crollano solo per attacchi frontali, possono essere svuotate, pezzo dopo pezzo, se non siamo pronti a vigilare.
L’Italia ha già conosciuto le conseguenze della rinuncia alla vigilanza democratica. La lezione del passato – dal fascismo storico alle stagioni del terrorismo – dovrebbe indurci a non sottovalutare segnali che, presi singolarmente, possono apparire innocui ma che nel loro insieme tracciano una rotta pericolosa. Il filo nero che lega populismo e neofascismo non è suggestione retorica: è una traiettoria documentata dalla comparazione storica e dall’analisi empirica.
Interrompere questa deriva è un compito urgente che richiede coraggio politico, responsabilità collettiva e una cultura democratica non solo radicata, ma militante. La democrazia si difende ogni giorno, soprattutto quando sembra non essere in pericolo. La posta in gioco non è più soltanto la qualità della nostra democrazia, ma la sua stessa sopravvivenza. E la chiave di volta potrebbe risiedere proprio nella capacità di valorizzare quel “rumore” democratico che i populisti vorrebbero silenziare.

* Professore PhD
Università di Macerata
Storia del Giornalismo e dei media digitali.
Ecole de guerre Economique, Paris – Rabat


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