di Maurizio Petrocchi *
L’accordo di cessate il fuoco firmato al Cairo il 13 ottobre sotto l’egida dell’amministrazione Trump segna una cesura significativa nella lunga sequenza di violenze che ha caratterizzato la regione dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Quel massacro, il più grave perpetrato contro ebrei dalla Shoah, aveva innescato una spirale di distruzione che ha causato oltre 67.000 vittime e sfollato il 90 % della popolazione palestinese di Gaza. Due anni dopo, ci troviamo dinanzi a un accordo fragile ma potenzialmente trasformativo, le cui implicazioni trascendono ampiamente i confini della Striscia.
Il cosiddetto Piano in 20 punti rappresenta un esercizio di diplomazia coercitiva più che di riconciliazione autentica. Le parti vi giungono esauste, sotto la pressione convergente di Washington e delle capitali arabe, non per genuina volontà di pace. Eppure, il nodo centrale, quello del disarmo di Hamas, rivela l’intera fragilità dell’architettura negoziale. Quando il presidente Trump ha dichiarato in conferenza stampa che “si disarmeranno perché hanno detto che si disarmeranno, e se non lo faranno, li disarmeremo noi”, ha esposto con brutale chiarezza l’ambiguità fondamentale dell’accordo. Non è chiaro chi sia quel “noi”: se si trattasse delle forze armate degli Stati Uniti, l’ipotesi appare irrealistica. Difficile immaginare soldati americani a setacciare le macerie di Gaza per confiscare fisicamente le armi dai militanti di Hamas.
La questione del disarmo è tecnicamente e strategicamente complessa. Hamas accetta un “sì condizionato” che preserva ambiguità cruciali, sul disarmo parla di “decommissioning” piuttosto che di resa; sulla governance futura evoca “piena responsabilità” pur dichiarandosi disponibile a trasferire l’amministrazione. Alcuni suggeriscono che Hamas abbia accettato di smantellare solo le armi pesanti, non l’arsenale di armi leggere, missili anticarro, razzi e ordigni improvvisati. Le armi sono disperse in una vasta rete di tunnel, di cui il settantacinque per cento resta intatto, rendendo estremamente arduo localizzarle, verificarle e metterle in sicurezza. Molte sono costruite con componenti a doppio uso, data la loro natura improvvisata, complicando ulteriormente il controllo.
Quale entità dovrebbe occuparsene? Nessun paese ha ancora assunto impegni fermi. Indonesia, Azerbaijan e Pakistan sono indicati come possibili contributori a una futura forza di stabilizzazione, ma se Hamas non accetta di consegnare volontariamente le armi, la dinamica di qualsiasi missione di peacekeeping muta radicalmente. Vi è poi il rischio che i palestinesi percepiscano queste forze come troppo vicine a Israele. Gli Stati Uniti lavoreranno con Egitto e Giordania per sviluppare una forza di polizia palestinese che, almeno in teoria, potrebbe coadiuvare il processo di disarmo.
La complessità si moltiplica se si considera la natura ibrida di Hamas, parte forza politica, parte esercito insurrezionale. Dal 1987, la resistenza armata ne costituisce l’identità fondativa. Disarmarsi significherebbe rischiare di perdere legittimità politica a Gaza. Senza garanzie di sicurezza, Hamas diverrebbe vulnerabile sia agli attacchi israeliani sia ai gruppi palestinesi rivali. Se i membri consegnassero le armi, non potrebbero più proteggersi da fazioni, tribù, clan e bande criminali, rendendo il disarmo ancora più improbabile. Già dopo l’annuncio dell’accordo, quel che resta di Hamas hanno ingaggiato scontri a fuoco con altri gruppi palestinesi ed eseguito pubblicamente individui accusati di collaborare con Israele.
I casi storici di disarmo riuscito come in Irlanda del Nord, Sudafrica e Colombia, avevano tutti un percorso relativamente chiaro verso la legittimità politica o la condivisione del potere. Qui non è così, Israele ha posto come prerequisito l’esclusione di Hamas da qualsiasi ruolo politico futuro. Gaza rischia di assomigliare ai casi falliti di Sud Sudan e Libia, o ai successi parziali dei Balcani, dove gruppi insorgenti consegnarono vecchi fucili per compiacere osservatori internazionali, conservando segretamente armamenti moderni per uso futuro.
Israele, dal canto suo, mantiene il controllo del quindici per cento del territorio come zona cuscinetto e lascia fuori dalle aree di ritorno immediato circa 900.000 palestinesi. Hamas è stato duramente colpito da due anni di guerra, molti leader storici sono stati uccisi, il comando e controllo significativamente indebolito, ma resta incerto se le unità sul campo obbedirebbero a un ordine di disarmo. Inoltre, l’Iran potrebbe tentare di inviare spedizioni d’armi a membri di Hamas o della Jihad Islamica Palestinese in Cisgiordania, per alimentare ulteriore instabilità. Dati i rovesci militari subiti, Teheran cercherà verosimilmente di ricostruire le forze proxy dell'”Asse della Resistenza”.
Eppure, vi sono elementi genuinamente nuovi. Il mondo arabo, dalla Lega Araba all’Egitto, dal Qatar all’Arabia Saudita, ha formalmente chiesto il disarmo di Hamas, evoluzione impensabile fino a pochi mesi fa. Il riconoscimento occidentale dello Stato di Palestina da parte di Francia, Regno Unito e Australia ha liberato le cancellerie arabe dal vincolo della difesa simbolica, consentendo loro di esercitare pressioni concrete. Netanyahu stesso, per la prima volta, accenna a un’amnistia per chi deponga le armi e a una visione del “giorno dopo” che include, sia pur vagamente, un futuro Stato palestinese.
Il contesto strategico regionale rende comprensibile questa convergenza. Hamas e Hezbollah risultano decapitati; l’Iran ha visto distrutte le difese aeree, depotenziato l’arsenale missilistico, ridimensionato il programma nucleare; il regime di Assad è caduto. Questa radicale alterazione degli equilibri ha creato lo spazio politico per un accordo che, fino a pochi mesi prima, sarebbe apparso irrealistico.
L’accordo assume rilevanza che eccede i confini regionali. Per Mosca rappresenta una sconfitta strategica, per due anni la guerra nella Striscia aveva distratto l’attenzione dall’Ucraina. La teoria del Cremlino, secondo cui il mondo transita verso il caos, da cui sarebbe emerso un ordine nuovo, viene smentita. L’accordo tra Israele e Hamas nasce attraverso mediatori tradizionali, con Washington come principale broker. La composizione del vertice egiziano, trenta paesi, di cui nove occidentali, senza Russia né Cina, dimostra che Mosca non ha nulla da offrire se non retorica antioccidentale. Il successo di Trump evidenzia per contrasto l’intransigenza di Putin e la sua inadeguatezza come attore globale responsabile. Resta aperta la questione fondamentale, ovvero siamo dinanzi a una vera trasformazione regionale o a una semplice riallocazione di alleanze? Perché si configuri una trasformazione autentica, occorrerebbe un mutamento strutturale dell’Iran e il conseguimento dello Stato palestinese inserito in un processo di pace che integri Israele nella regione.
L’esito dipenderà dalla capacità delle parti di trasformare l’attuale ambiguità in spazio politico. Ottenere risultati positivi e una pace sostenibile richiede una coreografia raffinata e negoziati dettagliati che possono protrarsi per anni. Molti dubitano che l’amministrazione Trump abbia la concentrazione necessaria per portare a termine questo processo, data la miriade di altre sfide di politica estera che sta affrontando. Se Hamas rifiutasse di disarmarsi, l’accordo potrebbe collassare irreparabilmente, riportando l’IDF a intensificare la campagna militare. Hamas continuerebbe a combattere come insorti, perpetuando il ciclo di violenza e sofferenza umanitaria. Siamo in un momento di possibilità, non ancora di speranza concreta. La “pace coercitiva” che si profila potrà reggere solo se accompagnata da un chiaro disegno politico per il “giorno dopo”. Senza questo, Gaza rischia di rimanere zona instabile, formalmente pacificata ma sostanzialmente priva di sovranità e futuro definito.
* Professore PhD
Università di Macerata
Storia del Giornalismo e dei media digitali.
Ecole de guerre Economique, Paris – Rabat
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