di Giuseppe Fedeli *
La “restanza”, ovvero la tenace volontà di rimanere ancorati alle proprie radici
È stato da poco acquisito al vocabolario il termine “restanza”, a significare il desiderio degli abitanti dei paesi colpiti dal sisma, molti dei quali ancora allo stremo, di restare nella loro terra: per cercare di dare continuità alla loro vita, le cui radici affondano pertinaci in quel suolo, dove il Leviatano degli abissi ha scatenato la sua spaventosa potenza.
Il vocabolo restanza potrebbe anche essere inteso nel senso di padronanza, di resilienza (un termine fin troppo abusato), di resistenza. Mi piace più il lemma “resistenza”: quell’attaccamento lontano dalle abitudini coatta, figlia del genius loci, che non può soccombere ai capricci del caso.
Ma i centri storici, chi li restituirà alla loro magnificenza, che trasuda dalle mura e dai muri, oltraggiati da tanta violenza? Ed alle case, sentite come centro di intimità e di affetti, chi restituirà a chi prima vi respirava il “focolare”, archetipo della comunione di sensi e fede, la ragione? I soldi, è bensì vero, ce ne vogliono, e tanti.
Eppure c’è chi vuole restare, e non vuol mollare. Sì, nove anni fa urlava dai visceri della terra uno dei più terrificanti sismi che l’Appennino centrale abbia mai conosciuto. C’è un cordone ombelicale che non si spezza, l’anima dei luoghi, sangue che scorre nelle vene. C’è chi vuole restare lì insieme ai propri affetti, che via via si affievoliscono, non hanno più speranza, eppure continuano il mestiere di vivere, a guardare a un incantato dopo, travestito da prima. Vorrebbero restare, se qualcuno glielo consentisse, e spegnersi tra le braccia della Grande Madre.
* giudice
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