di Giuseppe Fedeli *
Il ragazzo che strappava fiori
“Ciò che conta è la reazione di una società satura. Satura di mancanza di empatia. Oggi abbiamo bisogno di atti di gentilezza definitivi, che restino. Se stiamo fermi sulla morte, è come se rimanessimo ancorati al buio. Io preferisco, invece, concentrarmi sul pieno, sulla luce di un girasole, su ciò che di buono può scaturire da una vicenda così dolorosa”, sono le parole del padre di Ale.
A Milano c’è una piccola, grande macchia gialla: ha cancellato il nero attorno, riconcilia con l’umanità oltre ogni umana miseria. Lì, nel playground di via Dezza, nello stesso punto in cui nel 2017 è morto giocando a basket per un attacco di cuore un quindicenne, Alessandro Meszely, da anni si svolge una piccola processione di famiglia: i genitori, Giorgio Meszely e Laura Scolari, in silenzio, hanno sempre lasciato, sul posto, un girasole, il fiore preferito di Ale. Fino a quando una mano anonima ha cominciato a strapparli via. A quel punto, mamma Laura ha appeso un cartello a nome del figlio: “Non strapparmi. Non mi sono più rialzato dopo essere caduto su questo campo. Questo girasole mi ricorda”. In un italiano sbreccato, qualcuno ha macchiato lo stesso foglietto con un pennarello: “Se tutti mettono un fiore per ogni morto, Milano sarebbe una pattumiera”. La denuncia da parte dal Corriere della Sera ha dato l’innesco questa incredibile valanga gialla: i girasoli attaccati alla recinzione crescono ora dopo ora, i milanesi si mettono in fila per posarne uno e lasciare un biglietto di vicinanza. Il fioraio vicino continua a raccogliere ordini da tutta Italia. Chi ha letto la storia, vuole testimoniare con un fiore da lasciare anche a distanza. Dal tam tam sui social è nata l’idea di un raduno spontaneo, “Inondiamo Milano di girasoli”, sembra gridare tutta la città. Per l’occasione anche parte dello sport cittadino si è mobilitato, da Marco Riva, presidente del Coni Lombardia, a ex campioni del basket milanese, come Pierluigi Marzorati e Bruno Cerella, fino ai giovani dell’Olimpia e dell’Urania. Giorgio, il papà di Ale, a stento trattenendo le lacrime, adesso osserva questa città, che si volta come un girasole verso il campetto, verso quel ragazzo, prematuramente accomiatatosi.
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Mi domando -ci domandiamo- con sconcerto come possano accadere certi fatti. Quel fiore infilato nella rete, omaggio a una morte rapinosa, è stato sacrilegamente strappato. A tutta prima, si è indotti a pensare alla insania mentale di chi ha compiuto un gesto così assurdo. A una riflessione più profonda, che personalmente ho via via maturato, si arriva alla conclusione che, a dominare la scena, non è solo la proterva volontà, intesa al male, di vilipendere la memoria del ragazzo, morto per una tragica fatalità. Qui c’è una fenomenologia, meglio una patologia, di diverso conio. C’è un narcisismo ferito, qualcosa per cui l’autore del fatto non sopportava la troppa attenzione che veniva data a chi, da quel lontano 2017, non c’è più. Qualcosa che si trasferisce “parodisticamente” dal morto al vivo, e si nutre di mancate attenzioni, carezze negate, proscenii oscurati. Una vita, quella del “balordo”, in bilico fra senso e non senso, che trova il suo più paradossale significato in una “gara”. Una sfida che ubbidisce a una incompiutezza, sfociata in un gesto di mitomania: adesso parlate di me, che sono vivo!… ma in realtà non mi sento vivo, mi sento vivo soltanto compiendo un gesto da eroe, così da conquistare un posto sui giornali… un giorno da leone per i miei follower…. e non importa se in bene o in male, l’importante è che si parli di me! Questa è la lettura del fatto di chi scrive. Opinabilissima, per carità, non voglio sostituirmi ai bruzzone, ai galimberti, ai crepet, che dominano lo schermo un giorno sì e l’altro pure. Ci vogliamo aggiungere una intenzione cattiva, bensì: ma non è possibile che un ragazzo svelli un fiore, e dica quelle parole, se a monte non c’è una infanzia ferita, una fissazione libidica irrisolta e, forse, irrisolvibile. Della quale le strutture di prossimità, leggi sanità e articolazioni del sociale, attraverso i loro (pressoché inesistenti) presidii, dovrebbe accorgersi. Tanti adolescenti, come chi ha creato un caso attorno a un simbolo “sacro”, vivono un disagio senza limiti: ma tutti (gli altri) girano canale. Perché la vita agita è tutto uno zapping, non c’è più disposizione al donarsi: è tutto un mordi e fuggi, l’importante è pulirsi la coscienza con la finta lacrima di circostanza. In questa palude annaspiamo tutti, anche il sottoscritto, che sta qui a cercare di “incasellare” nei paradigmi delle scienze umane, con tutte le cautele del caso, un fatto che non trova senso né ragione. Almeno secondo la lettura più spicciativa del fenomeno.
* giudice
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