IL FOTORITOCCO – Due piazze in una
di Filippo Davoli *
Con la remora – piccola ma tenace – che attanaglia un fermano di nascita e di periodica residenza (d’estate, come intuibile) che tuttavia vive e lavora a Macerata da sempre, mi accingo alla stesura di questo nuovo appuntamento per le neonate Cronache fermane. Che, ovviamente, mi stanno molto a cuore. Non solo per l’avvincente avventura pluriennale sulle colonne delle omologhe Cronache Maceratesi, ma proprio per quel residuo di felice tachicardia che mi accompagna ogni volta che approdo nella mia Fermo, e ne ripercorro volti e memorie solo guardando le pietre e respirando l’aria.
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L’aria di Fermo non assomiglia a quella di nessun’altra città delle Marche: il moto ondoso delle colline – ed io ritengo che Leopardi non avrebbe mai potuto scrivere L’Infinito, se ad esempio fosse nato in Lombardia –; il mare d’erba che degrada dolcemente dai Sibillini all’Adriatico, qui si infrange su uno scoglio irsuto, e ricco di pietre e marmi, che il Duomo, dal suo Girfalco, firma con discreto cinismo, con educata ferocia, quasi a dire “decidiamo noi, come va a finire la storia”. E la storia, a Fermo, in effetti si ferma. Fa tappa. Così come il mare, che risalendo idealmente verso l’interno, qui si impenna e si fa vento.
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Fermo è una città che il vento lo porta dentro. È quella passionalità popolare che la porta ad avere una Piazza del Popolo (qualcosa, nel bene e nel male, di molto concreto) a fronte di una Piazza della Libertà (a Macerata, ad esempio), in cui il popolo è come assente e la libertà un concetto, un’idea. Ben vengano le idee, dirà qualcuno. Ben venga un popolo che le incarna, rispondo io.
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E così, come tra i poeti maceratesi spicca la bandiera dell’indimenticato amico Remo Pagnanelli, riversata però tutta intera dentro la parola poetica, a cercarvi un senso e un destino e fino a trovarvi la morte prematuramente, Fermo annovera la lezione irrinunciabile di Luigi Di Ruscio: una parola ventosa, incarnata, finanche sporca perché piena di vita, di sangue, di dolore, di umanità. E al suo fianco – sia pure nella linea del grande stile della lirica – la parola di Alvaro Valentini, amico dolce e sorridente, ma non per questo meno acuminato nei versi. Però una parola aperta, una parola di vedetta dal pennone del Duomo, in quel dialogo con le memorie e le solitudini innamoranti che ne fanno a tutt’oggi una delle migliori voci del nostro Secondo Novecento. A Fermo, poi, vivono Luigi Martellini (chi, amante della poesia, ignora il suo splendido saggio su Pasolini?), e Luigi Maria Musati, e mio fratello Angelo Ferracuti. E vivrà per sempre Mario Dondero – che mio fratello Angelo (Ferracuti) non è riuscito, nonostante la buona volontà di tutti e tre, a farmi conoscere di persona. Peccato: mi sarebbe piaciuto “fotografarlo” in silenzio, con gli occhi, senza stancarmi di guardarlo e di continuarlo a guardare.
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Nelle mie trasvolate notturne, quando sempre quell’aria forte di cui dicevo mi riporta a Fermo, il sorriso di Alvaro Valentini mi fa compagnia puntualmente da Piazza fino a Piazzetta: nelle trasferte fermane è lui il mio Virgilio del sogno, dapprima davanti la lapide di Matacotta (mi chiedo sempre, lì davanti, che charme doveva aver avuto la Aleramo…), poi più giù, finalmente in “zona casa”, mentre guardando Sant’Agostino ricordo gli agostiniani che la officiavano; e più giù Santa Lucia, il parroco storico Don Tomasso – quasi un francesismo, quella storpiatura tutta picena del nome…), l’Istituto, l’ufficetto delle Poste, il baretto di Emilio, le altalene del Monterone (che poi in realtà il Monterone sarebbe l’altro, quello dove ci sono le Poste Centrali e l’ascensore del parcheggio), le carceri. La Misericordia. L’Ospedale.
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A casa di mia madre e dei miei zii c’era il giardino. Fino all’adolescenza, la mia Fermo era quella. Poi varcammo coi miei cugini il cancello e ci ritrovammo a Monte Caucciù coi motorini, nella campagna vasta e soleggiata; ma anche per il dedalo dei vicoli che non finiscono mai. Dal Pianto a Campoleggio, da Via Migliorati ai vicoli chiusi, da Via Bianca Visconti a Vicolo degli Orlandi, da Vicolo Nobili a Via Langlois… È molto napoletano, il cuore del cuore di Fermo. Nobile nei palazzi, popolare nelle voci. La ritrosia, che è tipica della nostra gente, a Fermo si tramuta in fuoco. Una luminosissima lezione di grassa umanità, di felice dialetto, di capacità di socializzare. E anche una bella finezza d’animo, che fa essere i fermani amanti della bellezza. E cultori dell’amicizia, del dialogo. E tenaci lavoratori.
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Da residente a Macerata, mi sono sempre chiesto come avessero fatto i fermani a realizzare in quattro e quattr’otto i parcheggi a terrazza, collegati al centro con l’ascensore. E la piscina comunale, da tanti anni ormai. E quella bella strada a quattro corsie che dall’interna sale su tra rotonde e semafori, insieme all’altra che invece arriva dalla parte del mare e che sta lì da sempre. Anche per questa “capacità del fare” avrei tanto gradito se, in occasione dell’ipotesi di fusione delle province, la nostra sarebbe diventata Fermacerata. Adesso tuttavia le hanno abolite tutte (io avrei sterminato le Regioni, ma io non conto nulla… e di Fermacerata mi resta solo un fotomontaggio che realizzai proprio in quel periodo e che qui riproduciamo).
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Fermo, aspettami. Tornerò un po’ più spesso, ora che devo occuparmi anche io di te da queste pagine virtuali (e speriamo virtuose). Non me ne abbiate, cari concittadini. Nato a Fermo il 22 agosto 1965, anche se vive e lavora a Macerata, Filippo Davoli non ha dimenticato le sue origini. Non può. E non vuole.
*Filippo Davoli, poeta nato a Fermo, vieve e lavora a Macerata.
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