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Integrazione
c’è tanto lavoro ancora da fare

africani con cuffiette

 

Staziona abitualmente davanti ad uno dei tre bar nel salotto buono del paese, ossia i bei portici di piazza Risorgimento di Amandola. È un gruppetto di pensionati spesso alla ricerca del giovane e bel tempo perduto, ma anche del tempo dei sudati libri universitari. Davanti a loro gironzolano alcuni migranti africani. Giovani in jeans e magliette colorate. Andatura dinoccolata, telefonino all’orecchio. Qualcuno, ascoltando dischi in cuffia, si muove a ritmo musicale. Quella vista stimola una discussione tra i pensionati. Uno:”Ognuno di questi costa 35 euro al giorno, una somma che tanti italiani vedono col binocolo.” Un altro:”Aiutare chi ha bisogno è giusto e, soprattutto, è da Cristiani. Certo non lo si potrà fare all’infinito e nei confronti di un numero sempre crescente. Il buon cuore italiano deve fare i conti con le condizione economiche e sociali del Paese.”.

Un terzo:”Io sono convinto che molti vengono in Italia non tanto per fuggire da guerre e miseria, ma perché sanno, per dirla brutalmente, che qui si mangia e si dorme a sbafo. L’errore gravissimo va attribuito a un governo di incapaci che non hanno fatto e non fanno una selezione e un controllo sugli arrivi.”.
Ancora:”Eppoi, come si fa a tenerli a pensione senza impegnarli in qualche lavoro? Penso che anche per loro sia deprimente. Così giovani e robusti potrebbero essere utilizzati per la pulizia dei boschi che si sono trasformati in selve, del fiume Tenna ove in alcuni tratti ci sono più sterpaglie che acqua, delle vie del paese invase da erbacce. Oppure occuparli in qualche lavoro agricolo . Il mezzo più efficace per la tanto decantata integrazione è proprio il lavoro, unitamente alla voglia di imparare un po’ la nostra lingua.”.
L’ultimo:”Io di integrazione non ne vedo neppure l’ombra. Stanno tra di loro e tra di loro ogni tanto giocano a calcio nel vecchio campo sportivo. Non li si vede in compagnia di coetanei locali. Forse i nostri giovani, sbagliando, sono restii ad avvicinarli?”.

(Attilio Bellesi)

 

 


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