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Russia 2018, anche il Fermano è
orfano della ”magia dei Mondiali”

EDITORIALE - Il calcio estivo a tinte Azzurre è da sempre un fenomeno sociale oltre che sportivo, e la mancata partecipazione alla competizione iridata priva tutta la Penisola dell'effervescenza che, seppur per il mero periodo della kermesse, ci ricorda di essere tutti ed indistintamente fratelli d'Italia

FERMO – Ci siamo. Era purtroppo noto da tempo, precisamente da quel maledetto playoff contro la Svezia, che l’Italia sarebbe stata una spettatrice passiva della kermesse iridata in Russia. Però, quando il nodo arriva al pettine, l’amarezza sale ancora e la ferita, mai rimarginata, ricomincia a sanguinare.

Solo un fatto sportivo? Assolutamente no, in ballo la credibilità di un intero Paese, lento nel diagnosticare i propri mali (nello specifico dal punto di vista ludico), poco incline ad una sana pianificazione prospettica, niente affatto incisivo nel ritrovare la via smarrita. Nazione che perde, tra l’altro, una sorta di dolcissima ed indiretta manovra economica, dal lato dei consumi, del tutto indolore per il tifoso contribuente, pronto ad abbracciarla con viva e partecipe emozione: niente “Partita degli Azzurri, pizza e birra a 10 Euro” presso pub, caffè o chalet della litoranea e nessun fondo comune tra amici per chi acquista dal macellaio la grigliata, chi predispone i fuochi per la stessa e chi monta il maxischermo per ritrovarsi sul divano di casa tra amici-ora-fratelli con rinnovato sentimento nazionale. Smarrito dunque quella sorta di volano economico che, seppur non essendo una voce ufficiale del pil, se non altro nelle edizioni scorse di Mondiali ed Europei ha sempre rappresentato una costante sia del nostro entroterra che della costa.

Viene anche a mancare quella rinnovata spinta sociale che, sebbene senza scientifici riscontri antropologici, ha sempre rappresentato una potente goccia d’olio in certi arrugginiti ingranaggi collettivi. Anche a livello di vicinato. Già, perché se fino al giorno prima della partita si osservava il confinante in cagnesco per la scarsa attenzione con cui parcheggiava l’auto nelle aree condominiali, al gol degli attaccanti italici poteva benissimo essere l’immediato prossimo da abbracciare sul giardino condiviso per gioire insieme e rumorosamente. Questa scarica elettrica di partecipazione non ci sarà, siamo tutti un po’ orfani e figli di un Tricolore sbiadito.

Parliamo di un fenomeno emotivo profondo, tanto sì qui di avere concreti riscontri: non si ascolteranno nemmeno le sballate fantacorrezioni in corsa della formazione proposte dalle ragazze, per lo più poco inclini a discorsi di tattica e lettura della gara in divenire che, in nome del gossip e della più densa visibilità di cui godono gli elementi offensivi, invocano in campo il giocatore più affascinante o l’impiego di attaccanti a raffica in nome del verbo “tanto sono loro che fanno gol!”, in barba agli equilibri del calcio ed inveendo contro il ct di turno.

Ebbene sì, ce ne sarebbe ben d’onde per infierire all’indirizzo dei colpevoli della mancata spedizione a Russia 2018. Non solo sul quel che resta nell’immaginario collettivo di Giampiero Ventura e sulla federcalcio griffata Carlo Tavecchio, usciti di scena dalla fase finale delle qualificazioni mondiali che ha rappresentato il transitato per l’ultima tappa della metastasi calcistica partita già da tempo. Se la conquista del Mondiale 2006 è scorsa per mente, cuore e piedi di una generazione di calciatori al top (atleti protagonisti in competizioni nazionali ed europee di oggettiva caratura, con difensori di ruolo sulla trentina, centrocampisti d’ordine e di interdizione tra 26, 27 e 28 anni e parco attaccanti di prim’ordine con miscela di muscoli e fantasia) non si è fatto però tesoro dei due giri a vuoto negli otto anni a venire, in ambo i casi con la comparsata azzurra svanita al girone eliminatorio al cospetto, senza offesa alcuna, di avversari del tutto modesti, soprattutto in Sud Africa nel 2010 (da Campioni uscenti era preventivabile il non superamento del turno innanzi a Paraguay, Nuova Zelanda e Repubblica Slovacca?). Fine ciclo, scarso ricambio generazionale, opzioni errate.

Sono già stati spesi fiumi di inchiostro sullo sterile lavoro fatto da anni presso i settori giovanili di casa nostra, sulla poca fiducia che viene concessa in certi club di Serie A alle promesse del futuro ed altrettanto è stato fatto per il super affollamento dei cosiddetti parametri zero stranieri negli undici che settimanalmente sono protagonisti in campo della stragrande maggioranza dei collettivi prof. Sarebbe il mero aggrapparsi sugli specchi cavalcare l’onda del “mal comune – mezzo gaudio”, con la Germania stoppata dal Messico alla prima iridata o commentando l’Argentina ad annaspare con l’Islanda. Il Mondo in se, anche quello del pallone, è cambiato, e le canoniche squadre materasso sono svanite con l’apertura a tutto tondo delle frontiere calcistiche, con giocatori di nazioni ultraperiferie della scena di qualità spesso rodati e consumati in campionati europei e di livello, al posto dei nostri ragazzi, per puntarci ora contro in chiave internazionale un affilato rasoio di tecnica e mestiere impossibile da pensare nei decenni scorsi. Ecco, la concorrenza internazionale che, all’atto pratico, se ne infischia della storia, della tradizione e del palmares dei quotati campioni: dal primo al 90’ è una battaglia che si vince solo basandosi su un mix dato da idee chiare, organizzazione e leva sulle proprie caratteristiche. E quindi non bisogna stupirsi se una nazione come l’Islanda, sino a poco tempo fa ai livelli calcistici dell’Uomo di Neanderthal, irrompe al Mondiale confermando i progressi messi in mostra nel recente Europeo, addirittura con il tutto avallato da un progetto governativo entrato nelle scuole, che vede oggi gli uomini di mister Heimir Hallgrimson schermare la porta con due linee da quattro e due attaccanti in pressing sul portatore di palla altrui se parte da dietro diventati letali anche per, udite udite, un certo Lionel Messi, monosoluzione dei sudamericani a cercare sempre lo sbocco centrale rinunciando a monte ai rifornimenti esterni verso l’area, in quanto presidiata dai centrimetri degli antenati dei vichinghi.

Questo, a nostro avviso, l’irrimediabile presente. Non resta dunque che cercare di girare pagina il prima possibile, augurando un buonissimo lavoro al nostro corregionale Roberto Mancini, punta dell’iceberg di un movimento che di certo non potrà tornare presto del tutto competitivo passando per la sola opera del nuovo commissario tecnico. Si impongono lungimiranza, programmazione, scelte in chiave sportiva…e non da meno, coraggio e tanta fortuna.

Paolo Gaudenzi


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