di Andrea Braconi
Insieme alla compianta moglie, Ernesto Buondonno tanti anni fa entrò alla guida della sua auto a Lugano cantando “Addio Lugano bella”. Una canzone popolare anarchica (“Perfetta per lui, che si definiva stalinista anarchico” scherza il figlio Peppino), che questa mattina insieme all’Internazionale, considerata la più famosa canzone socialista e comunista, è riecheggiata nel cimitero cittadino per l’ultimo saluto ad un uomo che, da Fermo, aveva fatto una rivoluzione, aprendo le porte dell’ex manicomio in Via Zeppilli.
Ad accarezzare la bara anche le altre figlie Vincenzina e Lidia, i suoi amati nipoti, i tanti amici di una famiglia che, come ha rimarcato lo stesso Peppino in occasione del funerale svoltosi all’interno della Chiesa di Sant’Antonio da Padova, “è sempre stata per tutta la vita dalla stessa parte, dalla parte degli oppressi”.
“A nome della mia famiglia volevo ringraziare le tante persone che ci sono state vicine, che ci hanno aiutato in questi giorni, pochi ma dolorosi della sua sofferenza, e che poi sono le persone che ci sono vicine sempre e da sempre”.
Si è ripromesso di essere “intenso ma breve” nel suo intervento, giocando con le parole che il padre aveva chiesto di scrivere fuori dalla stanza di ospedale, nella quale è rimasto ricoverato per 20 giorni, per far capire che le visite erano sì gradite, ma che la fatica (e la fine) iniziava a farsi sentire.
I profili di Ernesto Buondonno sono stati molti, ha sottolineato Peppino: scientifico, intellettuale, politico, morale, di padre, di marito, di nonno e di persona. “Credo di poter dire che tutti questi profili avevano un punto fondamentale d’incontro, che era nella lotta per la liberazione degli esseri umani, per la loro dignità. Per questa ragione lui è passato da una formazione psichiatra di origine positivista alla psichiatria sociale, alla lotta contro le istituzioni manicomiali e le istituzioni totali”.
Un incontro fondamentale per Ernesto Buondonno è stato quello con Franco Basaglia. “Se dovessi cogliere un’istantanea della mia vita degli immensi regali che quest’uomo mi ha fatto, ricordo una passeggiata quando ero ragazzino con lui e Franco Basaglia in Piazza Unità a Trieste. Mio padre aveva tante contraddizioni, antinomie, che con lui chiamavo polemicamente aporie nel suo percorso intellettuale. Se ha studiato così tanto la fenomenologia di Husserl e Gadamer, è perché cercava da psichiatra prima di tutto la via per cogliere i segni della sofferenza umana. Perché esprimere la propria sofferenza era per mio padre era il primo atto di liberazione, di riconoscimento della dignità degli esseri umani. Quella stessa dignità che è stata calpestata nei confronti dei matti e che oggi viene calpestata nei confronti dei tanti migranti che vengono in questo Paese”.
In un luogo di culto gremito per l’addio a Ernesto, il figlio ha colto l’occasione per ricordare come la sua resti “una famiglia impegnata a difendere oggi quegli esseri umani da ciò che sta accadendo in questo Paese e difendere anche la Chiesa da chi sbandiera il Vangelo e li perseguita, li vuole respingere e vedere affogare in mezzo al Mediterraneo”.
“A questo, un uomo come mio padre si ribellava – ha aggiunto – come si ribellava di fronte alla dignità dei matti che veniva calpestata, perché quei matti erano prima di tutto portatori di diritti e di un’immensa umanità. Scoprire e capire il loro linguaggio era il primo momento della cura e della loro liberazione. È per questa stessa ragione che è diventato comunista, lo era stato in gioventù rincontrando il Partito Comunista in una stagione straordinaria negli anni ’70, in cui quel partito si aprì a nuove forze intellettuali e a conquiste. Ed è rimasto coerente. Voglio solo dire a papà grazie perché ci hai aiutato a stare per tutta la vita dalla stessa parte, dalla parte degli oppressi. Benedetto Croce diceva che quello che abbiamo fatto e pensato sopravvive alla nostra esistenza fisica e si confonde nel fiume interminabile della storia. Lungo quel fiume ci saremo e sapremo da che parte stare”.
Un uomo con il cappello, un giornale sottobraccio e la matita rossa: è l’immagine raccontata dalla nipote Fulvia, a cui Ernesto aveva negli ultimi mesi dato una mano per la stesura della sua tesi. “Ha dato tante a tante persone, non solo nel suo lavoro ma nella vita, soprattutto nella vita. Io gli devo quasi tutto e sopra ogni cosa lo ringrazio per non aver mai smesso di credere in me, anche quando non ci credevo neppure io”.
Lo studiolo in casa era la parte di mondo dove Ernesto insegnava alla nipote a diventare grandi. “Per farlo bisogno studiare, diceva, amare. Amare e studiare: sta tutta lì la faccenda. Mi ha insegnato a lottare per quello in cui credo ma sopra ogni cosa mi ha insegnato ad essere libera. Sì, perché mio nonno era un uomo libero e sono veramente fiera di averlo conosciuto e averlo avuto nella mia vita. Le ultime parole che ha detto sono state: non si muore perché si sta male, ci si ammala perché bisogna morire. Poi ha aggiunto: è la vecchiaia. Riusciva sempre a dire la cosa giusta e io gli ho risposto: noi che la cosa giusta non la sappiamo, nonno, come facciamo se tu te ne vai?”.
A chiudere l’altra nipote Iole, desiderosa di dire qualcosa ad una delle persone più amate nella sua vita. “La prima è che è stata una persona con cui mi sono divertita tantissimo. Era un uomo divertente, non esisteva discussione con lui che non prevedesse lo scherzo, una battuta, il gusto di una risata. Gli vorrei dire che è un uomo straordinario, un esempio, una stella polare per tanti. L’ultimo libro che ha scritto, ‘Frammenti. Piccole storie di psichiatria’, è un manifesto per i giovani, un libro volto a consegnare una testimonianza preziosissima. Occorre lottare per le cose in cui si crede e se si lotta le cose possono cambiare: due concetti rivoluzionari in questo momento storico in cui si è perso il coraggio di lottare per la sensazione di non poter cambiare nulla. Nonno ha scritto un libro in cui afferma che è proprio l’amore per gli altri che può salvare il mondo, può appunto essere il motore per cambiare le cose”.
Alla cerimonia funebre, officiata da Don Francesco Monti, hanno preso parte la presidente della Provincia Moira Canigola, l’assessore del Comune di Porto San Giorgio Elisabetta Baldassarri, il presidente della Carifermo Amedeo Grilli e quello della Fondazione Alberto Palma. Presenti anche l’ex sindaco Fabrizio Emiliani, l’avvocato Alessandro Bargoni, esponenti di Sinistra Italiana, dell’Anpi, della Cgil fermana, degli Sprar del territorio e, soprattutto, una folta delegazione del Liceo Artistico “Preziotti-Licini”, con la dirigente Stefania Scatasta, numerosi studenti, insegnanti e personale Ata.
Si è spento Ernesto Buondonno, lo psichiatra che fece “slegare i matti”
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