IL PUNTO
L’Accademia della Crusca a Fermo,
i giuristi sanno scrivere e leggere il diritto?

FERMO - L'Accademia della Crusca, per la prima volta a Fermo, pone il problema della lingua di avvocati, giudici e burocrati, troppo spesso incomprensibile, a volte anche agli stessi addetti ai lavori. Finalmente legislatore e Corte di cassazione introducono l'obbligo di chiarezza e sinteticità.

La Sala dei ritratti del Palazzo dei Priori di Fermo affollata di avvocati

 

di Paolo Bartolomei

A pochi giorni di distanza dalla memoria dell’avvocato Emiliani che festeggiava i 60 anni di iscrizione all’albo, l’Ordine degli avvocati di Fermo (questa volta con la collaborazione del Comitato pari opportunità) ha organizzato, sempre nell’ambito di formazione e aggiornamento obbligatori, un altro convegno diverso dall’abituale cliché, che prevede la spiegazione di un ben circoscritto argomento giuridico.

Il prof. Federigo Bambi omaggiato dall’avvocatessa Donatella Sciarresi, presidente del Comitato pari opportunità di Fermo

Scrivere il diritto” è un interessante corso su quella che può sembrare una cosa scontata (saper scrivere bene) oppure, al contrario, difficile a credersi:  avvocati, giudici e gli altri operatori del diritto (notai, burocrati etc.) non sanno scrivere in italiano. Per essere più precisi, spesso scrivono male, in modo ampolloso, con troppi latinismi e tecnicismi, al punto da non farsi capire bene da chi giurista non è. Ma a volte anche dai colleghi.

Ad aiutarci a fare chiarezza è venuto a Fermo il prof. Federigo Bambi, docente di Lingua giuridica all’Università di Firenze e accademico della Crusca. A quanto pare è la prima volta che un esponente della prestigiosa Accademia della Crusca tiene un convegno nella nostra regione, di sicuro è l’esordio a Fermo.

La materia, ancora sconosciuta ai più (soprattutto ai giuristi…) benché vasta e trattata già da decenni, ha formato oggetto di un importante convegno tenutosi nel 2014 a Villa medicea di Castello (sede dell’Accademia della Crusca a Firenze) “Lingua e processo: le parole del diritto di fronte al giudice” curato anche dal prof. Bambi e da allora è stata trattata in una serie di convegni e corsi di aggiornamento in giro per l’Italia, fin’ora mai nelle Marche.

Il docente fiorentino ha tenuto subito a precisare che non è venuto a Fermo per insegnare a scrivere ad alcuno, ma solo per porre dei dubbi e aiutare a trovare le possibili risposte.

 

L’INSEGNAMENTO DI CALAMANDREI E SCIALOJA, DISATTESO DA TUTTI

«Brevità e chiarezza» predicava Piero Calamandrei, uno dei grandi che hanno fondato il diritto italiano insieme al sommo Giuseppe Chiovenda e a Francesco Carnelutti.
Calamandrei non accettava che il giurista si occupasse «solo dei contenuti del suo dire, senza preoccuparsi della forma». «Non vi è pensiero giuridico se non in quanto sia chiaro, tutto ciò che è oscuro può
appartenere forse ad altre scienze, ma non al diritto» gli faceva eco un secolo fa Vittorio Scialoja, un altro dei padri fondatori della moderna scienza giuridica italiana.

Il saluto dell’avvocato Stefano Chiodini, presidente dell’Ordine avvocati di Fermo

A leggere atti giudiziari e sentenze degli ultimi cento anni, c’è il sospetto che nessuno abbia dato retta ai grandi giuristi del passato e oggi la lingua giuridica è bollata come giuridichese, legalese, burocratese, oscura, ambigua e incomprensibile.

I giuristi scrivono troppo e in modo troppo complicato. Una frase per essere facilmente capita deve essere lunga al massimo non più di 20-25 parole, avere poche proposizioni subordinate, contenere il meno possibile modi verbali non finiti (come il gerundio o l’infinito) o un tempo come l’imperfetto, non presentare doppie o triple negazioni, evitare termini arcaici, astrusi, ripetitivi, poco noti o latinismi inutili.
Tutto il contrario di quello che in realtà si legge ogni giorno nei testi giuridici e burocratici, infarciti di altresì, talché, ordunque, invero, orbene, o di latinetto come de quo, de qua, per tabulas, ex nunc, ex tunc, quisquis de populo, tamquam non esset, salvis iuribus, rato grato valido et fermo (i linguisti li chiamano “tecnicismi collaterali” che possono essere sostituiti con altri termini, tutti in italiano, che rendono il concetto senza necessità di perifrasi) e di tutti quei vocaboli o espressioni inconsuete (come all’uopo, coonestare, per converso, ultroneo) che un normale lettore non trova neppure nei codici, perché appunto non sono termini tecnici, ma servono soltanto a rendere elitario il modo di esprimersi di certi giuristi (ma fortunatamente non di tutti), a far credere che loro appartengono ad una categoria (o, meglio, ad una casta) particolare.

Il problema riguarda non solo il lessico, ma anche la costruzione del discorso, cioè la sintassi. Cominciamo dal lessico.

 

IL LESSICO: TECNICISMI, RIDEFINIZIONI E ALCUNE LOCUZIONI LATINE RESTANO INDISPENSABILI

Il prof. Bambi e gli esperti che hanno studiato la questione sono d’accordo sul fatto che il diritto (come qualunque altro settore professionale) utilizza tanti termini specialistici (detti tecnicismi specifici) che, sebbene incomprensibili ai profani, non si possono abbandonare perché diventati indispensabili per evitare lunghe e complesse perifrasi.
Ad esempio è il caso di litisconsorzio, litispendenza, riconvenzionale, anticresi, transazione, novazione, evizione, revocazione, rescissione, rimessione, comparizione, esibizione, contumacia, extrapetizione, ultrapetizione, impugnazione, aggiotaggio, enfiteusi, peculato, provvisionale, abigeato, olografo, illegittimità, retroattività, ultrattività, postergazione, premorienza, preterintenzionale, improcedibile, negatoria o redibitoria, comminare, irrogare e altri simili.
Alcuni di essi sono entrati nella conoscenza e uso generalizzati, vedi foro, usucapione, estradizione, ipoteca, pignoramento, sfratto, usufrutto, omicidio, uxoricidio, beneficio d’inventario oppure rogatoria, ergastolo, flagranza, imputato, dolo, reato, amnistia, indulto, querela (quest’ultima solo nell’accezione penale).

Il prof. Federigo Bambi

Stesso discorso per locuzioni latine ormai diventate tecniche e quindi indispensabili, come fumus boni iuris, periculum in mora, causa petendi, petitum, solve et repete, soluti retentio, ne bis in idem, tempus regit actum: non sono latinismi solo per vanteria ma per necessità.

In alcuni casi è entrata in uso la traduzione in italiano quando non necessita di perifrasi: è il caso di aberratio ictus (che non ha niente a che fare con una brutta malattia, ma si traduce semplicemente in reato aberrante), dies a quo oppure dies a quem (giorno iniziale e giorno finale).

Sorte analoga per le cosiddette ridefinizioni: parole della lingua comune che assumono nella lingua tecnica un significato diverso e quindi il cui utilizzo è indispensabile, peraltro adottate anche dai codici: confusione, consolidazione, continenza, connessione, costituzione, delibazione, decadenza, dispositivo, emulazione, incidente (probatorio), intervento, invenzione, istruzione, istruttore, imputazione, notizia (di reato), oblazione, produzione, purgazione, riassunzione, riunione, ricognizione, risoluzione, rappresentazione, accessione, accollo, comparsa, regresso, servitù, spoglio, vizio, etc.
Anche qui l’accezione giuridica di alcuni termini è entrata nella conoscenza e nell’uso generalizzato (es. appello, fermo, arresto, nullità, patteggiamento, ricettazione, divorzio, prova, grazia, immunità).

In alcuni casi sono ridefinizioni sia il verbo che il sostantivo da cui deriva (agire e azione; ripetere e ripetizione), in altri lo è soltanto il sostantivo (eccezione; rappresentazione, ricusazione) perché il verbo (eccepire; rappresentare; ricusare) ha lo stesso significato anche nel linguaggio comune. Al contrario, nel caso di “riconvenire” il verbo è una ridefinizione, mentre il sostantivo (riconvenzione) e l’aggettivo (riconvenzionale) sono tecnicismi specifici perché esistono solo in diritto. Mentre succedere e successione hanno lo stesso significato anche nel linguaggio comune, successorio è un tecnicismo specifico.
Situazione analoga per il verbo delegare che in diritto ha lo stesso significato del linguaggio comune, mentre delegazione, delegato e delegante sono ridefinizioni, e infine delegatario è un tecnicismo specifico.

Ancora più singolare i casi di ridefinizioni con due o più significati diversi addirittura all’interno della stessa lingua giuridica: possesso e simulazione sono cose diverse in civile e in penale; evasione lo è in penale e in diritto tributario; pubblicità ha più significati, sia in penale che in civile (per l’udienza, per gli atti, e pubbliche affissioni); il domiciliatario è colui che riceve le notifiche oppure a cui si può pagare una cambiale; accesso è sia quello compiuto dal giudice, sia quello dell’ufficiale giudiziario, nonché la visione e copia di atti; la collazione è sia il conferimento delle donazioni ereditarie, sia la stesura finale di un atto.
Infine due tecnicismi specifici con più accezioni: escutere ed escussione può riguardare sia i testimoni, sia un debito, mentre la già citata querela ha significato completamente diverso in penale e in civile.

Quindi tecnicismi e ridefinizioni necessari sono al massimo poco più di un centinaio; se ci si fermasse a questi e non si andasse oltre, il diritto sarebbe molto più comprensibile a tutti.

 

UN CASO PARTICOLARE: RESCISSIONE E RISOLUZIONE; COMMINARE

Quando il tecnicismo viene adottato dalla lingua comune, e dalla stampa generalista, possono sorgere problemi. Un caso non trattato dal prof. Bambi nel convegno di Fermo ma molto frequente e che vale la pena accennare perché si inserisce perfettamente nel presente discorso: la risoluzione del contratto  nella stragrande maggioranza delle volte (anche quando è consensuale) è chiamata (soprattutto dalla stampa sportiva) erroneamente “rescissione” solo perché rende meglio l’idea.
Se risoluzione non piace perché non fa capire bene subito il concetto, non va assolutamente utilizzato un altro termine che ha però un significato diverso nel linguaggio tecnico (e solo in quello: tecnicismo specifico); idem se si utilizza “annullamento del contratto, altro errore. D’accordo che tanto tutti capiscono egualmente di cosa si parla, sia i tecnici sia i profani, ma è una questione di stile e di cultura.
Meglio ad esempio usare “scioglimento (che tra l’altro è proprio il significato in italiano corrente del termine “soluzione”, dal latino solvere) del contratto, oppure “divorzio” che non è un tecnicismo specifico ma una ridefinizione che può essere utilizzata anche in senso figurato; in alternativa adottare una perifrasi che per la stampa va bene tipo “hanno strappato il contratto“, e così via.

A volte a commettere lo strafalcione sono perfino lo stesso legislatore e nientemeno che la Corte di cassazione che troppo spesso utilizzano il verbo comminare col significato di infliggere, irrogare, mentre in realtà significa solo prevedere, fissare, una pena (peraltro in latino comminari significa minacciare).

Quindi nessuno è esente dalla “buccia di banana”: la “sacra” Corte di cassazione in una sentenza (però qui mettetevi a sedere…) la n.14147 del 2018 ha scritto: «…reato penale…» !!

 

L’incredibile topica della Corte di cassazione nella sentenza n.14147 del 2018

 

LA SINTASSI e L’IMPERFETTO NARRATIVO

Un altro problema della lingua del diritto, accennato sopra, è quello sintattico e ha possibili risvolti non tanto per la comprensibilità degli atti, ma addirittura per la loro efficacia giuridica.

Un particolare molto diffuso è l’anteposizione dell’aggettivo o del participio al nome. Ad esempio: “le contestate aggravanti” oppure “il nudo proprietario”; è la lontana influenza del latino che continua a lasciare traccia nella costruzione della frase, ma serve anche a dare un particolare rilievo alla parola, come quando anche il predicato verbale viene anteposto al soggetto: “Ritiene la Corte…”, “ricorre Tizio…”.
Non sempre è possibile tornare all’ordine normale in italiano (nome-aggettivo) perché talvolta l’espressione in quella posizione ha assunto un significato specifico e non si può più cambiare: “nudo proprietario” è un concetto civilistico ben preciso, mentre un… “proprietario nudo” non riguarda il diritto (anche se potrebbe avere rilievo penale…).

Si può proseguire con la preferenza per certi tempi del verbo, come il famigerato imperfetto narrativo, oggi rimasto quasi solo negli atti giudiziari o nei verbali di polizia (“Tizio proponeva ricorso…”, “Caio si introduceva nella proprietà e sottraeva…”).

Senza addentrarci nella mole di studi dei tanti esperti, si può semplificare al massimo affermando che quasi sempre l’imperfetto va sostituito con i tempi perfetti (passato prossimo o passato remoto) che esprimono un’azione conclusa, mentre l’imperfetto va riservato a quei pochi casi in cui in cui l’evento è raccontato nel suo svolgimento prolungato oppure per distinguerlo nella stessa frase da una contestuale azione che è istantanea e conclusa (“Tizio mentre guidava andò fuori strada”) o per descrivere azioni ripetute abitualmente (“Ogni domenica Tizio andava alla partita ma quel giorno invece si è fermato a casa di Caio”).

 

In una diapositiva mostrata durante il convegno: i contenuti del discorso (chi, cosa, perché, dove e quando), validi non solo per i giuristi ma, ad esempio, anche per i giornalisti

 

FINALMENTE LEGISLATORE E CORTE DI CASSAZIONE INTRODUCONO L’OBBLIGO DI CHIAREZZA E SINTETICITÀ

Calamandrei e Scialoja un secolo fa invitavano i colleghi avvocati alla chiarezza e alla brevità. Dopo decenni di dibattiti rimasti solo nelle aule universitarie o nei convegni, affollati più da linguisti che da giuristi, finalmente il principio è stato fatto proprio anche dal legislatore, cominciando nel 2010 dal nuovo c.p.a. (codice del processo amministrativo) che all’art.3 recita: “Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica.

Dalla giustizia amministrativa il principio si è esteso a quella civile e penale, nel dicembre 2015 Consiglio nazionale forense e Corte di cassazione hanno firmato protocolli sui caratteri linguistici degli atti, mentre commissioni ministeriali valutano le possibili conseguenze processuali della violazione del principio.

La Suprema Corte – senza attendere le commissioni ministeriali – ha cominciato a esigere il rispetto del principio di chiarezza e sinteticità in recenti sentenze in cui è stata addirittura dichiarata l’inammissibilità del ricorso per “esposizione dei fatti di causa oscura, confusa e prolissa“.

Ancora più di recente (2017) la Cassazione ha riconfermato che quanto disposto dall’art. 3 c.p.a. “deve essere considerato un principio generale di tutto il diritto processuale perché la mancanza di chiarezza e sinteticità, sia nell’atto di parte che del giudice, è in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Costituzione) e con quello di leale collaborazione tra le parti tra loro e tra le parti del processo e il giudice“.

Aggiunge chi scrive, va subito contrastato un problema anche più grave di tutti quelli qui esposti: negli scritti al concorso in magistratura e all’esame di abilitazione per avvocati, negli ultimi anni purtroppo compaiono sempre più spesso errori (da penna rossa e blu) grammaticali e di sintassi che non dovrebbe commettere nemmeno uno studente di terza media.
Fenomeno mai verificatosi fino a dieci-quindici anni fa, che Calamandrei e Scialoja non avrebbero mai immaginato e che ha costretto le istituzioni a correre ai ripari.

Altra diapositiva del convegno

 

LE CONCLUSIONI DELL’ACCADEMIA DELLA CRUSCA

Non facciamone però troppa colpa ai giuristi, perché nella loro formazione si è dedicata poca attenzione agli aspetti linguistici. Nei corsi di laurea in giurisprudenza si è sempre dato poco spazio a come scrivere e comporre i testi, anche perché fino a pochi anni fa erano costituiti da esami quasi esclusivamente orali. O forse perché si è dato per scontato che chi frequenta l’università non ne ha bisogno, ma i fatti dimostrano il contrario.

Accademia della Crusca

Finalmente però da alcuni anni all’università, negli ordini e nelle associazioni professionali si comincia ad offrire insegnamento di lingua giuridica (anche un ripasso di grammatica e sintassi non farebbe male…).

Corsi di perfezionamento e di aggiornamento vengono organizzati con successo da Scuola Superiore della Magistratura, da Consiglio Nazionale Forense e Accademia della Crusca a Firenze.

Tutto ciò affinché il discorso giuridico possa davvero essere capito non soltanto dai giuristi patentati, ma anche dai comuni cittadini senza bisogno di intermediari, visto che il diritto come cemento sociale appartiene all’intera collettività.
E affinché il giurista possa tornare a essere un uomo di cultura a tutto tondo e non solamente il titolare di un mero sapere tecnico, esclusivo ed elitario.

 

Villa medicea di Castello, sede dell’Accademia della Crusca sulle colline fiorentine

 

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