di Andrea Braconi
Un tema estremamente delicato, il fine vita. Che tocca l’esistenza di chi soffre, dei familiari e anche del personale sanitario. Un tema che deflagra sui media caso dopo caso, situazione dopo situazione, con fazioni sistematicamente contrapposte e pronte a schierarsi. Ma da Fermo, sabato 4 dicembre, è partito un forte segnale: Chiesa e scienza devono sapersi confrontare, devono mantenere vivo un dialogo per apportare contributi fondamentali in ambito normativo. Da questi presupposti è nata l’iniziativa voluta da don Sebastiano Serafini ed inquadrata nel titolo “Sguardi sul fine vita. Etiche e medicina a confronto”, che oltre a due figure di spicco come padre Carlo Casalone, gesuita e teologo della Pontificia Accademia per la Vita, e il dottor Eugenio Pucci, neurologo psichiatra dell’Ospedale Murri di Fermo, ha visto la presenza anche dell’arcivescovo Rocco Pennacchio. “Mi accosto in punta di piedi a questi temi e come cristiani vorrei che cogliessimo questa occasione per metterci in atteggiamento profondo di ascolto, prima di una qualsiasi possibilità di giudizio. Non dimentichiamo mai che il contesto nel quale le problematiche di fine vita vengono fuori richiede una nostra vicinanza, qualsiasi sia la scelta a noi è sempre richiesto di stare vicini, senza battaglie ed esibizionismi. Perché se noi ci tiriamo fuori entra qualcun altro e a volte lo fa strumentalizzando. E non c’è niente di peggio che esibire il dolore delle persone” ha concluso il suo intervento, facendo riferimento al crocifisso come protagonista su un dialogo di fine vita.
Di momento ‘ponte’ ha invece parlato il sindaco Paolo Calcinaro. “In questo Paese ne abbiamo tanto bisogno, noto che si tende a polarizzare ed estremizzare le questioni importanti, dalle politiche sull’immigrazione al fine vita, dal Ddl Zan ai vaccini. È brutto che non si cerchi di ragionare, di trovare una mediazione, non c’è un punto di convergenza su tante, troppe materie”.
Con un approccio ‘clinico e di etica applicata’ (“Mi interessa che nell’ambito di un determinato contesto clinico si riescano a capire problemi morali, devo trovare in quel contesto una soluzione di principi che si scontrano l’uno con l’altro”) il dottor Pucci ha aperto il confronto, spiegando come le cure di fine vita siano ben codificate nel termine di cure palliative attraverso la legge 34/2010, “una legge ampiamente inapplicata”.
“Come neurologo ho altro punto di vista del fine vita, che non significa necessariamente morte ma accettare situazioni che sono in qualche modo novità, esperienze di vita inedite. Non dimentichiamo che in questo contesto entra prepotentemente la tecnologia medica. Ma per capire meglio dobbiamo pensare ad un caso, ad una narrazione rispetto a tante persone incontrate. Un Eugenio che si racconta, una persona con diagnosi di malattia neurologica inguaribile e progressiva”.
Toccante la sua lunga esposizione, con riferimenti alle situazioni più particolari ed anche estreme di fronte alle quali un paziente ed un medico possono ritrovarsi. Scandagliati anche alcuni aspetti della legge 219 del 2017, entrata in vigore nel gennaio 2018 ed inerente il cosiddetto consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), “volgarmente detta del biotestamento che esprime volontà adesso per il futuro” ha evidenziato.
“C’è anche la questione della sedazione palliativa profonda continua, un trattamento medico che ha come fine non uccidere il malato ma trattare quei sintomi refrattari gravissimi a cui il malato va incontro se gli tolgo la ventilazione. Questo non è un atto eutanasico ed è previsto dalla nostra legge”.
Inevitabile il passaggio sul suicidio medicalmente assistito e sul caso del 43enne marchigiano Mario, con rimandi alla sentenza della Corte Costituzionale relativa al caso di Dj Fabo. “Dobbiamo ragionare intorno alle situazioni limite” ha chiosato Pucci.
“Chi pratica medicina si trova ad una convergenza di fattori drammatici e difficili da distinguere – ha esordito padre Casalone -. Ma è anche importante che noi allarghiamo il campo visivo e contestualizziamo il caso clinico presentato dal dottore. Innanzitutto partendo dalla biografia del paziente, arrivando a tutto lo spettro dell’esistenza. Il nascere dice qualcosa di come noi disponiamo della nostra esistenza. E il nostro modo di gestire l’esistenza è fin dall’inizio segnato dal fatto che dipendiamo da qualcun altro che ci mette al mondo. Quindi non possiamo collegare immediatamente la morte alla nascita. La libertà è fin dall’inizio un atto di responsabilità”.
E in questa dimensione, ha aggiunto, “l’etica ha come obiettivo quello di aiutarci a mettere a fuoco ciò che rende più umani uomini e donne, per cui è importante confrontarsi su cosa costituisce l’umano”.
La seconda contestualizzazione riguarda la medicina. “É un’impresa scientifica tecnologica che mira allo spostamento del limite. Le malattie per cui ieri morivamo possono essere trattate, talvolta guarite. Ma ci si rende conto che a volte il modo di trattare le malattie le cronicizza. La medicina, perciò, deve riflettere sui suoi scopi, bisogna introdurre un criterio di proporzionalità nell’uso dei trattamenti. Il rischio è utilizzare una logica di controllo dell’evento conclusivo”.
Ultima contestualizzazione: lo stato dell’arte in quei Paesi dove il suicidio assistito e l’eutanasia sono legge. “Parliamo di Belgio, Olanda, adesso anche in Spagna, in Francia se ne discute, negli Stati Uniti alcuni Stati hanno ammesso alcune forme. E nell’esperienza di questi Paesi cosa succede? Guardando all’Olanda, una prima osservazione è che si cerca sempre di partire da casi ristretti e puntuali, ma si nota come dopo vent’anni ci sia un aumento percentuale di morti dall’1 al 4%. Quindi, diventa sempre più difficile controllare i criteri con cui viene ammesso il suicidio assistito. Un conto sono i casi concreti, un conto è l’impatto sociale di ciò che per legge rendiamo possibile”.
“I terreni scivolosi ci sono e ci sono per qualsiasi atto della nostra vita – ha tenuto a precisare Pucci nel riprendere la parola – Quando introduciamo una nuova tecnologia, ci apriamo a nuovi valori, possiamo crescere o decrescere. Dobbiamo riconoscerci in una società che ha punti di vista diversi e presupposti etici diversi. E dobbiamo trovare le regole di una convivenza. Occorre avere coraggio di ribaltare quali sono le conseguenze di non adottare una norma. Un incontro così è il seme di una discussione che deve servire a cercare una buona norma, con un bilanciamento dei vari punti di vista partendo da concetti chiari e definiti”.
Il neurologo del Murri ha inoltre posto una serie di interrogativi sui quali ampliare la discussione. “La quantità di farmaco non è un problema morale, ma tecnico. Quindi avere criteri precisi è cosi moralmente importante? O conta invece la mia angoscia e la mia sofferenza interna? Questa è un’altra finestra da cui guardare e ritengo che si debba ricordare che l’evoluzione della nostra cultura pone al primo piano le regole che la nostra società si è data, che sono quelle di privilegiare l’autonomia dell’individuo. Questo non significa affatto che dietro ci sia uno sfrenato individualismo, ma piuttosto che nella traiettoria di una vita posso pensare a cosa è meglio per me”.
“C’è la possibilità di applicare meglio una legge ampiamente disattesa come quella sulle cure palliative, che rispetto alla medicina difensiva riducono l’impatto delle risorse impiegate – ha affermato Casalone -. Occorre quindi partire da una diffusione di cultura e pratica della medicina palliativa. Quale potrebbe essere il discrimine in una società pluralista? Serve un’interazione fra le culture per crescere reciprocamente in umanità, possiamo trovare degli accordi che non siano solo procedurali, senza perdere di vista la differenza tra uccidere, terminare la vita e lasciar morire. La presenza di un sostegno vitale vuol dire che se lo sospendi la persona muore. Ci può essere un sano desiderio di morire all’interno di un quadro patologico grave, ma invece chiedere ad un altro di abbreviarmi la vita è un passo ulteriore che non va sostenuto”.
“Le cure palliative sono cure a 360 gradi – ha proseguito Pucci – in cui l’elemento della valutazione psicologica, esistenziale e spirituale è fondamentale. Mi chiedo nelle Marche quanti servizi di cure palliative sono in grado di fornire questo. Cerchiamo invece di far valere dei servizi che in Italia ci sono dal 2010”.
Sul rischio di contrapporre il concetto della sacralità della vita con il concetto di qualità della vita, se da un lato Pucci ha fatto riferimento “ad uno spazio per visioni del mondo diverse”, dall’altro Casalone ha affermato come sia necessario “uscire da questo binomio mortale di contrapporre sacralità e qualità della vita, primo per trovare un terreno comune di dialogo, secondo per motivi antropologici, filosofici e teorici. C’è un linguaggio che vale per tutti e due: non sono venuto al mondo di mia iniziativa e su questo siamo tutti uguali, credenti e non credenti. C’è un qualcosa che ci unisce, per esempio il nascere e la sua originaria passività inaggirabile”.
A proposito del rapporto tra fede e scienza, Casalone ha voluto focalizzare l’attenzione su un paradosso contemporaneo. “Oggi si dice io credo nei vaccini o non credo nei vaccini, il prodotto della medicina più valido dal punto di vista costi benefici. Ma come mai siamo arrivati ai prodotti scientifici come oggetto di fede? Per conoscere devo dare fiducia al senso immediato che la cultura e la conoscenza scientifica richiede. Perché se non credo non capisco niente, neanche la scienza. E la ragione è immersa in un contesto che richiede affidamento”.
“Noi cerchiamo di riassumere lo status quo della scienza nelle cosiddette raccomandazioni scientifiche – ha aggiunto Pucci -. La mia vergogna è che ci siano dei sanitari che invece hanno rinunciato a questa fiducia, alle fondamenta della loro competenza, mentre questo elemento di fiducia è cruciale. E se trovate un sanitario che non condivide questo, cambiate persona. Certo, la scienza sbaglia, non è dogmatica, ma il vaccino è stato un passo avanti per l’umanità e dobbiamo andare avanti”.
Pucci, infine, ha chiamato in causa nuovamente il mondo degli operatori sanitari sugli obiettivi di cura. “Dobbiamo assolutamente cambiare un atteggiamento diffuso, che dovrebbe essere quello che la persona che ci troviamo davanti vuole per sé. Nell’ambito delle cure palliative la dimensione esistenziale è dare senso alla nostra vita, alle nostre sofferenze ma anche alle nostre gioie. Queste cure sono volte al dare un senso alla sofferenza, al dolore, alla disabilità, per questo è importante cambiare prima l’idea dei medici e delle organizzazioni sanitarie. Se questo si realizza è più facile avere investimenti su cure palliative e persone competenti a farle. Noi non siamo formati nelle università, nei corsi di specializzazione, si affaccia solo adesso l’idea di avere una specializzazione. Per questo dico che l’eutanasia è un dettaglio rispetto alla presa in carico di una persona, che porta invece con sé una grande complessità”.
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati