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«Un patto generazionale per salvare il Pd Marche»

POLITICA - L'ex rettore Unicam interviene nel dibattito sul futuro del partito sia a livello regionale che nazionale: «Il partito deve decidere cosa vuole essere da grande»

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Fulvio Esposito

«Occorre un ‘patto generazionale’ che consenta a tutte e a tutti di dare il proprio contributo per il rilancio del Partito Democratico nelle Marche e per le Marche, destinate altrimenti ad una progressiva marginalizzazione». E’ la ricetta di Fulvio Esposito, candidato dem alla Camera dei Deputati nelle ultime elezioni. 

«Se a livello nazionale  – prosegue – i problemi che il Pd deve affrontare sono tanti e di grande portata, a livello regionale, nelle Marche ne abbiamo qualcuno in più. Lacerazioni interne, irrisolte, hanno condotto non solo alla sconfitta elettorale nella competizione per il governo della Regione, ma addirittura al commissariamento del Partito, un evento grave, da non sottovalutare.
È una condizione che va superata rapidamente: non c’è tempo da perdere. Per superarla, occorre una riorganizzazione profonda e condivisa del partito, a cominciare dalla rivitalizzazione dei circoli, con un pieno coinvolgimento degli iscritti e con una grande apertura nei confronti di chi iscritto non lo è ancora o non lo è più».
L’ex rettore di Unicam apre le porte ai giovani: «Il Partito, le sue attività, le sue iniziative devono essere attrattive e interessanti per le comunità locali. Molti territori della nostra Regione soffrono da tempo di un problema grave di calo demografico, acuito sì, ma non determinato, da eventi traumatici come il sisma del 2016.
Bisogna che le persone giovani ‘si approprino’ dei territori, traccino nuovi sentieri di sviluppo, vi trovino occasioni di lavoro vero, stabile, qualificato. Per raggiungere quest’obiettivo, occorre che queste persone diventino protagoniste della politica e, dunque, anche del Partito e nel Partito. Non si tratta di rottamazioni o di futili giovanilismi: occorre appunto un ‘patto generazionale’».

Riguardo il congresso, secondo Esposito «segna uno snodo importante per la vita del Partito Democratico, ma anche per il paese, il cui assetto istituzionale, per funzionare correttamente, ha bisogno di una forza di opposizione i cui obiettivi politici siano ben definiti e quindi comprensibili da parte di tutte le persone che sono chiamate, anche – ma non solo – con il voto, a contribuire “all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 della Costituzione).
In questo senso, capisco che il dibattito sulle regole del congresso possa apparire secondario – roba da azzeccagarbugli, come dice qualcuno – ma, quanto meno, dimostra che si tratta di un congresso vero, che non serve a sancire in pubblico accordi già raggiunti in privato, un congresso che vede davvero confrontarsi visioni diverse sul futuro del Pd e del Paese».
Esposito indica anche i tre aspetti che le mozioni a sostegno delle candidature dovranno essenzialmente definire. «Il primo: che cosa vuol essere il Pd ‘da grande’, chi vuole rappresentare, a chi vuole dare voce. L’approccio del “ma anche no”, che, nella sua semplificazione satirica, ben riflette l’immagine di un Pd dall’identità sospesa e indefinita (e perciò poco riconoscibile), non ha pagato, se è vero come è vero che il numero dei voti si è, negli anni, più che dimezzato. Probabilmente, tra le persone che non hanno partecipato al voto delle ultime elezioni politiche o hanno depositato una scheda bianca o nulla (17 milioni, un numero ben superiore al doppio dei consensi riportati da Fratelli d’Italia) ce ne sono alcuni milioni che avrebbero potuto o voluto votare Pd, ma non l’hanno fatto perché non avevano chiaro per chi e per cosa avrebbero votato (come peraltro ci hanno detto durante la campagna elettorale). Ecco, quando si parla di definire l’identità del Partito – che sembra una cosa vaga, ‘ideologica’ ed astratta – in realtà, si tratta semplicemente di questo.
Il secondo aspetto sul quale le mozioni a confronto dovranno pronunciarsi è quello delle priorità o, meglio, degli obiettivi prioritari dell’azione politica del Partito. Anche qui non ci possono essere ambiguità: è sulle priorità chiaramente definite che chi deve orientare il proprio consenso verso l’una o l’altra forza politica (o rimane a casa e non vota) prende la sua decisione. Obiettivi sfumati, contraddittori o improvvisati possono portare un effimero consenso, ma, alla lunga, erodono la base elettorale: è quello che è accaduto.
Il terzo aspetto – e deve necessariamente venire dopo il chiarimento sui primi due – è quello della collocazione del Pd nel quadro politico nazionale, quello cioè delle alleanze. È comprensibile che nei talk show – che fanno il loro mestiere – questo tema venga anteposto agli altri, ma è paradossale che questo accada nel dibattito interno. Non è per assumere ruoli egemonici fuori del tempo, ma se non si vuole essere subalterni, prima si chiarisce chi vogliamo essere e quali obiettivi vogliamo realizzare, poi si verificano le eventuali convergenze su tali obiettivi, con le naturali e legittime distinzioni sui modi e sui tempi, ma senza smarrire identità ed orizzonti dell’azione politica».

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