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Crisi di vocazione, mancano giovani preti anche nel Fermano. Don Giordano Trapasso e la Chiesa di domani: «Aiutiamo i ragazzi per un futuro più bello»

L'INTERVISTA al nuovo vicario generale dell’Arcidiocesi di Fermo: «Siamo circa 160 parroci per 123 parrocchie. Un numero che potrebbe far pensare ad un esubero, invece, di questi 160, 85 hanno dai 60 anni in su, diversi sacerdoti non operano più. Viviamo per un futuro più bello, per questo ci dobbiamo impegnare e questo è quello che ci suggerisce la speranza»

Don Giordano Trapasso

di Antonietta Vitali

Erano più di 38.000 nel 1990. Nel 2020, il numero dei sacerdoti in Italia è sceso a circa 32.000, di questi non tutti ancora in attività per sopraggiunti limiti di età o di condizioni di salute quindi, sempre nel 2020, a gestire le circa 25.600 parrocchie presenti sul territorio nazionale ci sono poco più di 15.000 sacerdoti. Sono alcuni dei dati emersi da uno studio condotto dalla Cei, Conferenza Episcopale Italiana, indicativi di quello che è il fenomeno della crisi di vocazione che spinge sempre meno giovani a scegliere la via del sacerdozio. Qualcosa è iniziato, in realtà, con il secondo dopoguerra, che si è andato ad acuire negli anni e che oggi pare inarrestabile. Le regioni italiane con la percentuale di parroci più bassa per abitanti sono la Lombardia, il Lazio e la Puglia. Le Marche, non sono tra queste ma non sono, tuttavia, immuni da questa situazione. Siamo andati ad analizzare meglio i numeri che si riferiscono alla provincia di Fermo intervistando don Giordano Trapasso, di recente nominato vicario generale dell’Arcidiocesi di Fermo dall’arcivescovo Rocco Pennacchio.

Qual è la situazione attuale dei parroci del Fermano?

«Siamo circa 160 parroci per 123 parrocchie. Un numero che potrebbe far pensare ad un esubero, invece, di questi 160, 85 hanno dai 60 anni in su, diversi sacerdoti non operano più perché le condizioni di salute e l’età non lo permettono e molti vivono nella Casa del Clero. Abbiamo qualche parroco emerito che è rimasto in parrocchia, opera come prete non avendo però più la responsabilità che invece è stata affidata ad un altro parroco. Dai 75 anni in su dovrebbero, in genere, essere sollevati dalla gestione della parrocchia mentre noi abbiamo diversi casi di sacerdoti che, nonostante l’età, operano lo stesso come, don Lauro a Montecosaro, don Enzo a Porto Sant’Elpidio, don Gino a Casette d’Ete e altri ancora. Dai 50 anni in sotto ci sono soltanto 28 sacerdoti di cui 13 sono stranieri e operano in convenzione».

Cosa vuol dire “in convenzione”?

«Sono preti di diocesi straniere che chiedono di venire in Italia per motivi di studio o di pastorale. Sono i rispettivi vescovi (quello della diocesi di appartenenza del parroco e quello della diocesi che lo accoglierà) che si accordano per questo momentaneo trasferimento che dura tre anni e può essere rinnovato fino a un massimo di altre due volte, per un totale massimo di permanenza in convenzione, pertanto, di nove anni». 

Numeri poco confortanti nelle Marche ma, in generale in tutto il mondo che fanno pensare ad una nuova evoluzione della Chiesa. Come si pensa di affrontare questa crisi vocazionale?

«È evidente che un certo modo di essere Chiesa oramai sia finito. La Chiesa non è formata soltanto dai vescovi e dai religiosi ma da tutti i fedeli e per questo la struttura non può essere centrata solo sui sacerdoti. Abbiamo l’opportunità di intraprendere insieme il cammino sinodale, quello che Papa Francesco ha chiesto a tutta la Chiesa, quindi anche ai fedeli e al quale i vescovi stanno dedicando questi anni fino almeno al 2025. Un cammino fatto di corresponsabilità e di compartecipazione proprio di una famiglia cristiana». 

Come sarebbe, quindi, la nuova struttura?

«Resta ferma la figura del presbitero che mantiene il suo ministero presiedendo e continuando a fare la sintesi delle varie situazioni che possono capitare. Intorno a lui, come nel più perfetto schema della famiglia cristiana, ruotano figure che lo affiancano nelle varie responsabilità e che hanno ricevuto una opportuna formazione teologica necessaria per portare avanti la vera missione della Chiesa che è quella di annunciare il Vangelo nel mondo».

Questo però non risolve ancora il problema che comunque abbiamo a monte e cioè che di giovani che scelgono il sacerdozio ce ne sono sempre meno. Una soluzione potrebbe essere quella di eliminare il celibato? La Chiesa può aprirsi a questa possibilità?

«Intanto la questione va posta nel modo corretto, il punto non è se la Chiesa permetterà ai preti di sposarsi ma, se la Chiesa deciderà o meno di scegliere i preti anche tra gli sposati. Attualmente su questo non c’è un’apertura, c’è una riflessione, è una questione posta, ma pare che si stia ancora rimanendo sulla regola che la Chiesa latina sceglie i preti tra i celibi. Nell’immediato, senza voler per forza aprire porte che al momento sono chiuse, possiamo e dobbiamo pensare alla Chiesa come era un tempo cioè una comunità nello spirito». 

Siamo dinanzi a una crisi globale che non riguarda solo le vocazioni, ma, forse, i valori in generale. Diventiamo sempre più individualisti, meno appassionati, meno coinvolti in tutto. Nelle generazioni più avanti con gli anni questo fenomeno è meno evidente di quanto lo sia invece nei giovani. Quale messaggio sente di poter dare ai giovani?

«È importante rilanciare le vocazioni ma non soltanto intese come la scelta del sacerdozio, quanto piuttosto nel senso più profondo del significato. Bisogna aiutare i giovani a capire il senso vocazionale della vita, a comprendere che la vita è un dono che a sua volta deve essere donato, che può essere messo a disposizione degli altri in mille modi diversi, nel matrimonio, nei figli, nel sacerdozio, nel lavoro che si sceglie di svolgere, nel volontariato, nel cammino sinodale, nell’impegno politico. La cultura in cui siamo è in un momento di apatia, di rassegnazione, ma si possono cogliere anche le nuove opportunità per annunciare il Vangelo e aiutare le nuove generazioni ad interiorizzare il senso vero della vita». 

Come possiamo andare verso un futuro migliore?

«Assumendoci la responsabilità della nostra vita e della storia senza aver paura tuttavia delle nostre fragilità. È un tempo che mette a nudo le nostre fragilità anche di noi preti, per questo il discorso della corresponsabilità è importante, perché si possa essere di supporto l’uno con l’altro anche di fronte alle debolezze che possono essere di ognuno. San Gregorio di Nissa dice che “ciò che è proprio dell’umano è ciò che è suggerito dalla speranza”, non è il visibile e il temporaneo quello che ci è proprio ma quello che la speranza ci suggerisce quindi quello che è il futuro. Viviamo per un futuro più bello, per questo ci dobbiamo impegnare e questo è quello che ci suggerisce la speranza». 


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