di Giuseppe Fedeli *
I “vicinati”
È accaduto in un comune dello Stivale: una donna ha denunciato la vicina di casa per il continuo calpestio con i tacchi su un pavimento in gres porcellanato e per la caduta di oggetti che avrebbero turbato la sua tranquillità. I rumori, percepiti anche durante la notte, nonostante gli accorgimenti messi in atto – a seguito delle ripetute rimostranze,- per ordine del Giudice, dall’inquilina del piano di sopra, avrebbero generato nella denunciante uno “stato di ansia cronica”.
In conseguenza di che il Tribunale ha disposto, in sede civile, un risarcimento di 10mila euro a carico della vicina “molesta”. Il fatto offre lo spunto per riflettere su una situazione che, almeno per quanto mi riguarda, si ripete ogni benedetto giorno dell’anno, nel quartiere dove abito. Al punto da essersi incancrenita. E, per cortesia, non mi si venga a dire che l'”indiziato” ignora il fastidio (che può arrivare a un livello di
vera e propria esasperazione) che certi rumori provocano al vicino. A chi, cioè, disgraziatamente per lui, abita nei pressi. Facciamo un esempio. Lasciati liberi di scorrazzare in giardino (e fin qui, per carità, nessuna censura), non potendo comunicare con le parole, quando, attivati da una “causa” quasi sempre esterna, manifestano uno stato di frustrazione o di gioia, i cani si mettono ad abbaiare (precisamente, a latrare), forsennatamente, talvolta senza pause, per minuti e minuti. Per non parlare dei cani di piccola taglia lasciati in cattività, il cui uggiolare può mandare letteralmente fuori di testa.
Ora, è evidente che queste bestie non hanno nessuna colpa. La colpa, se così è dato esprimersi, è del padrone dell’animale, la cui condotta è inurbana, per non usare altre aggettivazioni. Consentire al proprio fido di abbaiare a tutte le ore del giorno e a un semplice stimolo che provenga
anche a distanza dal recinto dove esso vive, è indice di maleducazione. Verso questa gente, del tutto consapevole dei danni che i vicini possono subire, punto il dito: anche un animale domestico può essere, se non educato, addestrato. Rispetta il mio confine, e io rispetterò il tuo. Osservando questa basilare regola di buon vicinato, si eviterebbero musi lunghi e sguardi in tralice, carichi di odio (anche se la cosa non mi appartiene). Si eviterebbe, cioè, quella tensione, quella guerra di nervi, che non fa bene né all’una, né all’altra delle “parti in causa”. È solo questione di stile e di onestà. Parole estranee ai modi di fare dei balordi, dei sussiegosi (cinici, notare la radice che accomuna l’aggettivo al vocabolo “cane”), con buona pace del “senso” di prossimità. Possiamo soltanto “aspettare”, seduti, perché no, sulla riva del fiume… Questo sì, non può esserci negato.
* giudice
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