di Giuseppe Fedeli *
Il genio
Genî si nasce. Poi occorre olio di gomito per ex-primersi, d’accordo. Una lunga diuturna auscultazione di sé e dell’altro-da-sé. Il genio (nell’accezione generalmente intesa) non si stupisce di sapere. Perché sa di non sapere. È rapito da un’alba, da un tramonto. Guarda per un lunghissimo minuto un filo d’erba. E si commuove. Piange, se vede un grillo che zoppica. Non è, quanto dianzi, svendita in stock delle letture (per meglio dire, delle vulgate) del fanciullino pascoliano. Né tanto meno ermeneutica a la mode. Il genio guarda oltre l’orizzonte. Non ama la confusione, ama starsene in disparte. È solitario, ma comprensivo, e cordiale con l’altro-da-sé.
La sua ‘sapientia’ non può essere tramandata, ‘insegnata’. Chi la capirebbe? Di fronte al vulgus che lo deride, perché non riesce a de-finirlo in una odiosa quanto stolida etichetta, il suo è un atteggiamento nobile, di sprezzatura. Non si tratta di disprezzo, ma della necessità di escogitare un modo di stare al mondo, un modo nobile, aristocratico nella accezione migliore del termine. Anche se poi il genio un posto ce l’ha, in interiore suo. Non vuol mai prevaricare sul prossimo. Mai correggerebbe qualcuno, nemmeno di fronte all’evidenza. A meno che non sia chiamato in causa. Non mette mai in difficoltà chi gli sta di fronte. Perché, per contraddittorio che possa sembrare, l’umiltà è il suo più fulgido alloro. Il genio sa troppe cose. Perché si è specchiato troppe volte nel suo abisso. In lui la volontà non ha la meglio, è ‘servo’ di una intuizione primordiale.
Non si sa perché si nasce genî, perché si acquisisce in dote questo fardello. Era meglio non vedere, fa dire Sofocle al vecchio Edipo.
Il genio è quel bambino, che cerca di catturare il mare dentro un secchiello.
Un amico
* giudice
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