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Il grido di Roberto Trisciani:
“Distruggono intere generazioni,
ma noi rimaniamo in silenzio”

MONTEGRANARO - Il giovane, volontario della ong Avsi Foundation, ha raccontato la sua esperienza nel Sud Sudan attraverso dati, grafici e cenni storici, facendo il punto su un conflitto sempre più devastante

di Andrea Braconi

foto di Gianfranco Mancini

Tantissimi dati e grafici, una parte storiografica con i protagonisti della vita politica del Paese (e gli immancabili signori della guerra) un breve cenno sulle popolazioni e sulle loro caratteristiche. E poi la guerra, insieme ai luoghi che lo hanno colpito particolarmente, qualche spruzzata su dinamiche economiche, infrastrutture inesistenti, condizione della donna (completamente assoggettata all’uomo e chiamata semplicemente “generator”), risorse naturali, colera e sistema di accoglienza ugandese. Fino all’Avsi Foundation, la ong con la quale collabora.

Per oltre due ore Roberto Trisciani ha sciorinato alle tante persone assiepate all’interno della sede di Philosofarte, a Montegranaro, informazioni ma soprattutto urlato il proprio stato d’animo per l’agghiacciante situazione del Sud Sudan, diventato Stato solo nel 2011 dopo un referendum e soprattutto due guerre civili con numeri impressionanti: 500.000 morti, di cui 400.000 civili, nel periodo 1955-1972; quasi 2 milioni di morti e 4 milioni di profughi nella seconda fase che va dal 1983 al 2005.

Lì Roberto ha vissuto 10 mesi intensi, immergendosi completamente in una realtà che presenta caratteristiche sconosciute alle nostre latitudini. E alla domanda “Roberto, ma perché non se ne parla mai?” ha risposto così: “È una cosa che mi sono sempre chiesto, penso sia una vergogna non parlarne, sono fatti estremamente gravi e questa continua indifferenza non può far altro che aggravare la situazione. Anche la posizione degli Stati Uniti, che comunque mantengono un ruolo strategico nella destabilizzazione del paese, ha inciso molto sul fatto di non voler coprire mediaticamente questo conflitto”.

Da una richiesta di indipendenza nata in un contrasto tra nord e sud dell’allora Sudan (con la parte settentrionale arabizzata, che aveva imposto la Sharia e legata storicamente all’Egitto, mentre quella meridionale, nera e cristiana, era più influenzata dalla colonizzazione inglese), nel luglio di 7 anni fa aveva appunto preso forma il Sud Sudan, divenuto a tutti gli effetti paese membro delle Nazioni Unite sotto la guida di Salva Kiir Mayardit.

Un riconoscimento che sembrava potesse aver messo fine ad una lunga storia di sangue e che invece, a causa di uno scontro tra le due principali etnie del Paese (i Dinka fedeli al presidente e i Nuer legati all’ex vice presidente Machar) nel 2013 ha riportato indietro la lancetta del tempo.

“Da quello che ho visto il vero motivo per cui questa gente combatte è perché è di etnia differente – ha rimarcato Roberto -. È una vera e propria guerra tra poveri, non solo per la condizione esistenziale delle persone ma è una guerra senza senso e molti non sanno perché combattono”.

E il quadro tracciato dallo stesso Trisciani non lascia spazio ad interpretazioni. A seguito di questa nuova guerra, infatti, su una popolazione di circa 12 milioni di persone, 1,9 milioni sono sfollati, 210.000 vivono nei cosiddetti Poc (i campi di protezione dei civili), 2,1 milioni sono rifugiati negli Stati confinanti, di cui 1 milione soltanto in Uganda. “Un flusso crescente, quello dei profughi, che ha raggiunto il suo picco nel 2016, quando gli accordi pace non sono stati più rispettati. Sono 7 milioni le persone che necessitano di assistenza umanitaria, pari a circa il 60%, 1,1 milioni di bambini sotto i 5 anni soffrono di malnutrizione acuta, una vera e propria piaga, e solo il 22% delle cliniche di primo intervento sono funzionanti”.

Ma tra i dati più agghiaccianti del contesto sud sudanese c’è il numero di bambini soldato. “Sono più di 17.000, arruolati in gruppi armati dall’inizio della crisi nel 2013. E questo in un Paese che spende il 10,5% del proprio Pil per gli armamenti, con Cina e Israele come principali fornitori. Un Paese che ha un’età media di 17,3 anni, una speranza di vita di 56 anni, un tasso di alfabetizzazione del 27%, il terz’ultimo al mondo. E soprattutto, secondo l’indice di trasparenza internazionale, il Sud Sudan è lo Stato più corrotto al mondo al pari con la Somalia, con una classe politica definita cleptocrazia”.

Un vero e proprio caos, lo definisce Trisciani, dove è anche impossibile fare una distinzione tra “buoni” e “cattivi”. “I ribelli vivono nelle foreste e sono in inferiorità logistica, per questo fanno imboscate e saccheggi. Ma da una parte all’altra, le principali vittime restano i civili, con intere generazioni che vengono lentamente sterminate, e durante gli attacchi vengono prese di mira cliniche, ospedali e scuole”.

Il silenzio scende quando Roberto mostra due video da lui registrati dopo gli attacchi ad una scuola. “Questa scuola è stata costruita dall’Unicef nel 2014 e a distruggerla non sono stati i ribelli ma l’esercito governativo. E pensate che dopo aver permesso questi atti, lo stesso Governo va a chiedere alle associazioni non governative di costruire scuole. E’ stata l’esperienza che mi ha colpito di più. A cosa serve tutto questo, mi chiedo? Sono scelte che hanno conseguenze disastrose su ogni aspetto della vita”.

Tornerà in Sud Sudan, Roberto. Tornerà presto, per continuare ad aiutare quelle popolazioni, pur consapevole dei rischi quotidiani in un Paese sempre più devastato. Ma soprattutto dimenticato. Anche da noi.


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