I pericoli dietro la bellezza della montagna: l’appello del Soccorso Alpino, intervista al presidente Tarcisio Porto

MARCHE - L'analisi e le raccomandazioni del presidente regionale Tarcisio Porto: “Tutti uniti per contribuire all'innalzamento della cultura della montagna”

di Andrea Braconi

Due gennaio, Jonathan Strappa. Sedici gennaio, Maurizio Matteucci. Il 2022 si è aperto con due tragedie nell’area montana che hanno segnato in maniera indelebile le rispettive famiglie e toccato profondamente l’opinione pubblica: la prima avvenuta lungo la strada che conduce da Pintura di Bolognola al Fargno, la seconda sul sentiero 242 nei pressi del Rifugio Città di Amandola. In prima linea negli interventi di recupero dei due corpi c’erano soprattutto le stazioni locali del Soccorso Alpino e Speleologico Marche, presieduto a livello regionale da Tarcisio Porto.

Presidente, questi fatti sono legati a quale tipo di approccio?

“Direi ad una semplificazione ed una banalizzazione del concetto di rischio che tanti hanno quando vanno in montagna e esponendosi a pericoli reali, cioè la possibilità di scivolare in presenza di neve e ghiaccio, esporsi a quel pericolo senza avere un minimo di preparazione pensando di fare una normale camminata e senza avere un minimo di strumentazione, per capirci ramponi e picozza, e saperla usare dopo aver fatto un po’ di addestramento, purtroppo causa incidenti per scivolamento da sentieri o pendii che apparentemente sembrano affrontabili normalmente. Questo è un dato oggettivo in tutta Italia, ma da noi ancora di più perché si pensa che siccome siamo vicini al mare e siccome le nostre montagne siano un espressione di bellezza e basta, non si è pronti come invece avviene nelle Dolomiti e sulle Alpi, dove si sa che quando si va in rifugio bisogna avere ramponi e picozza. Poi succede anche lì che qualcuno va in giro con sneakers o scarponcini da trekking semplici, però da noi l’alta frequentazione nelle giornate di alta pressione e di sole pieno, invitano la popolazione della costa, meno abituata alla ruvidità della montagna, ad andare su senza attrezzature”.

Su questo aspetto voi avete documenti, foto e video piuttosto emblematici.

“L’altro giorno sul Vettore una persona saliva con i Mammout e quell’immagine è diventata subito virale. A me è successo sul Gran Sasso il 24 dicembre di vedere tra la tanta gente in fila una ragazza venuta su con le sneakers, che dopo un po’ scivolando è andata in affanno sia fisico che psicologico. E gli incidenti degli ultimi giorni, quello di Amandola sul sentiero 242 e l’altro al canale del Rifugio del Fargno, sono proprio tipici della scivolata su terreno innevato e ghiacciato, sottovalutato”.

Sicuramente è anche necessaria un certa dose di preparazione.

“Se si va a camminare su terreno non innevato ci vuole un po’ di attenzione e un minimo di preparazione fisica. Diverso è se invece si va anche a 1.000 metri su sentiero ghiacciato, dove sono passati già in diversi che hanno battuto la neve diventata subito ghiaccio: lì sappiamo che si scivola con spesso conseguenze agli arti. Figuriamoci se questa cosa la trasportiamo a 1.500 metri, dove la scivolata è a ogni passo se non hai non ramponcini e catenelle che si usano in città per non scivolare sul marciapiede, ma veri ramponi da montagna, magari non quello professionale ma sicuramente idoneo per quell’ambiente, oltre alla picozza necessaria per prevenire la scivolata”.

E come si riesce a divulgare questa consapevolezza?

“Noi indichiamo il Cai e le scuole Cai come riferimenti per così dire popolari ai quali rivolgersi per iniziare a fare qualche escursione o corso base di escursionismo estivo ed invernale a basso costo. Il Cai ha messo a punto un sistema graduale di approccio che ti dà intanto i principi e cioè: le attrezzature, le piccole dotazioni, lo zaino con dentro il power bank per il cellulare, l’acqua, la barretta energetica o qualcosa da mangiare, una giacca in più, il tipo di scarpone. Inoltre, un minimo di concetti per pianificare la gita come vedere il meteo, vedere il bollettino neve e valanghe, vedere le condizioni di un versante o di un sentiero. Non bisogna partire per l’ignoto, ma oggi grazie al web si può anche studiare un po’ il tracciato, oltre che capire se c’è copertura telefonica o meno in quella zona”.

Quindi, quali sono le vostre indicazioni?

“Rivolgersi alle sezioni del Cai, che nelle Marche hanno una tradizione importantissima da Pesaro fino ad Ascoli. Tra le nostre organizzazioni c’è un vincolo parentale e quindi indichiamo in modo esatto il percorso che dobbiamo fare tutti nel divulgare questi concetti e contribuire all’innalzamento della cultura della montagna”.

Focalizziamo sul corpo del Soccorso Alpino marchigiano.

“Siamo 136 soci di cui 110 parte alpina ed il restante parte speleo forre, organizzati in 5 stazioni alpine coincidenti con le province delle Marche e una stazione speleo, che opera in cavità, forre, ambienti umidi, rocciosi ed altri. La parte alpina è in pronta partenza, abbiamo 5 minuti come standard dalla chiamata, con almeno una squadra di 2 persone che si reca sul posto e se serve viene raggiunta da altre. Ci sono, infatti, tante false chiamate o tanti incidenti che si risolvono con poco. Per ogni stazione abbiamo 2 mezzi speciali attrezzati con tutto il materiale necessario”.

Tecnicamente come operate e come vi formate?

“Facciamo una progressione alpinistica a tutti gli effetti. Questo è un termine che sembra non attecchire in Appennino, ma è un problema culturale: andare sul Vettore, infatti, ha bisogno di una progressione alpinistica, che è ha fatto scuola a livello mondiale e che è un codice di addestramento e materiali d’uso che servono in quelle circostanze. Come formazione abbiamo quella data da una scuola nazionale certificata e che ci permette al fini della norma specifica di fare soccorso organizzato sanitario. Lo facciamo con Protezione Civile, Carabinieri e Vigili del Fuoco, ma loro arrivano fino ad un certo punto e poi entriamo in campo noi, dove appunto c’è bisogno di progressione alpinistica”.

Come accaduto nei due tragici eventi degli ultimi giorni.

“Esattamente. Purtroppo sono state situazioni veramente drammatiche. Nel caso del Fargno il tecnico di elisoccorso che turna nella base Search Rescue di Fabriano, siccome c’era vento di caduta, pur avendo fatto 5 tentativi di vericellare l’equipe, non è riuscito a scendere con l’elicottero dovendo abortire la missione. Hanno provato anche i Vigili del Fuoco ma neanche in quel caso ci sono riusciti. Allora il tecnico di soccorso è stato lasciato sul posto e ha dovuto fare da solo, raggiungendo il precipitato. Lì in diretta telefonica, perché in certi posti le comunicazioni sono difficili, ha dato comunicazione facendo una verifica sui parametri vitali. Si è proceduto con una barella portantina portando il precipitato fino alla strada dove c’era il medico che però ha dovuto fare la constatazione di decesso legale, ma in realtà i parametri di vita non c’erano più dall’inizio”.

Invece il caso di Amandola?

“Lì l’elicottero era impegnato in un’altra missione e la squadra si è portata sul posto subito con un operatore della nostra stazione di Montefortino che era in zona. Il precipitato era ancora in vita, lamentava forti dolori e richiedeva aiuto. Purtroppo ad un certo punto è precipita di altri 20 metri e quando è sopraggiunta la squadra era in fin di vita. Gli hanno praticato per 50 minuti un massaggio cardiaco, ma non è valso a niente. Si è deciso di fare il trasporto e all’arrivo dell’ambulanza è stata rilevata la morte”.

Sono interventi complicati e drammatici, che da un punto di vista umano lasciano anche in voi delle ferite aperte.

“Noi non siamo i soli, ci sono anche i medici in prima linea. La medicina di urgenza e la psicologia degli scenari cosiddetti di guerra ti espone a delle sollecitazioni. C’è un debriefing psicologico che suggerisco sempre ai capi stazione nei giorni successivi agli interventi più pesanti, per monitorare e verificare con il personale eventuali necessità. Ricordo le scene drammatiche del terremoto, in particolare la scossa di agosto con alcuni dei nostri operatori del Soccorso Alpino che hanno tirato fuori dalle macerie decine di salme e semi sepolti. Quello che resta sono delle immagini che se tu affronti con un percorso di supporto psicologico fanno meno male, anche se non è facile. È anche banale dire che quando ci sono giovani e bambini la pressione è maggiore e lì bisogna mantenere ancora di più la calma perché l’ansia quasi da prestazione crea rischi in più per gli interventi. Sottolineo anche come i nostri facciamo addestramenti frequentissimi per affinare il lavoro di squadra e la fiducia reciproca”.

Un ultimo ma fondamentale appello ai fruitori della montagna.

“Nella montagna, per noi che veniamo da quella cultura di passione forte, vediamo veramente il senso che ha sempre colpito l’uomo, cioè la vetta e i panorami. Ma se entri nel dettaglio di ogni aspetto bello, c’è sempre dietro una sorta di trappola definita euristica. L’altro ieri, dibattendo sulle chat interne, abbiamo deciso che da ora in poi quando incontreremo persone che vanno in montagna senza un minimo di attrezzatura faremo del tutto per farli desistere, indirizzandoli da un’altra parte. Perché in montagna bisogna andare con le gomme giuste, la mettiamo così, perché i costi per la società e soprattutto i costi di vite umane o lesioni permanenti sono troppo alti”.

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