di Antonietta Vitali
«Quel 24 febbraio di questo anno è stata la giornata più triste della mia vita. Sembrava che il mondo finisse lì, in quell’istante. Guardavo ogni ora le notizie sulla guerra, mi tenevo in contatto con mia madre, i parenti e gli amici tramite Viber (in Ucraina non si usa Whatsapp ma questa app che praticamente ha la stessa funzionalità), vedevo le strade affollate di gente che usciva dalla mia terra e la mia tristezza aumentava. Pensavo a mia madre che non sarebbe riuscita ad affrontare il viaggio verso l’Italia da sola, ero preoccupata, non dormivo la notte per l’agitazione e alla fine ho deciso su due piedi. Sarei andata io a prenderla a Kiev».
A parlare è Elena, 32 anni, conosce Walter cinque anni fa, si innamorano, si sposano, lei lascia Kiev per trasferirsi in Italia mentre sua mamma Vita resta a vivere lì. Le fa visita di frequente durante l’anno e, nonostante i problemi di salute della mamma che non le permettono sempre una vita regolare ma anzi piuttosto diversa da quella che si potrebbe definire una vita normale, tutto fila liscio. Fino allo scoppio della guerra, però, perché il conflitto è paura e mamma Vita la prova tutta questa sensazione, fino in fondo. Non esce più di casa, le autorità hanno suggerito di non dormire in stanze con finestre, meglio i rifugi o i corridoi, Vita sceglie di dormire su una sdraio pieghevole posizionata nel corridoio dell’appartamento. Non era mai stata sola in casa prima perché, delle tre stanze da letto, due venivano affittate a studenti piuttosto che a lavoratori fuori sede e quindi, aveva sempre avuto compagnia. Però, già da prima di quel 24 febbraio, quando i venti di guerra cominciavano a soffiare, in casa era rimasta solo lei, la gente aveva iniziato a scappare in cerca di luoghi più sicuri. Inoltre, le medicine necessarie per la terapia di Vita cominciavano a scarseggiare, reperire i farmaci era già diventato impossibile.
Il viaggio di Elena per Kiev inizia sabato 5 marzo, da Roma Ciampino, con un volo per Cracovia, dove alla mezzanotte dello stesso giorno arriva alla stazione degli autobus. Qui ne aspetta uno che la porterà alla frontiera Polonia-Ucraina, quella di Shehyni perché è quella che può essere attraversata a piedi, cioè il modo più veloce per passare il confine e il controllo documenti, le hanno spiegato. Lei ha studiato il percorso, ha gli orari dei mezzi che però, scopre una volta arrivata sul posto, a causa della guerra sono saltati del tutto. L’autobus arriverà ma dovrà aspettare, a marzo è ancora inverno, il freddo è tanto, la paura, sicuramente altrettanta, ma lei è certa che riuscirà nella sua missione. Anche quando si sente dire da un signore, con affetto, vedendola esile e dall’aspetto che le dona almeno dieci anni in meno rispetto alla sua vera età, «Ma dove vai tu? Tu non puoi immaginare cosa c’è la!». Lei non si perde d’animo, resta ferma sul suo da farsi rispondendo che «è l’unica soluzione possibile. Devo andare a riprendere la mia mamma». Ma la fortuna aiuta gli audaci e Elena, lungo il suo cammino, di piccoli segni di fortuna ne ha avuti, a cominciare da quella prima attesa che si rivela essere soltanto di due ore quando le sarebbe potuta andare molto peggio. Alle più che probabili attese ci si era preparata con un equipaggiamento che le avrebbe permesso di dormire in stazioni o in luoghi di fortuna, sacco a pelo, torcia, felpa calda e pesante, un tappetino quadrato su cui sedersi per isolare il freddo del suolo, una scorta di cibo che se non avesse usato non avrebbe riportato indietro ma avrebbe lasciato ai suoi amici a Kiev prima di ripartire. Il pullman preso a Cracovia la lascia a 15 km dalla frontiera, impossibile fare il tratto a piedi, per raggiungerla è necessario trovare un taxi e lo trova, come trova un altro passaggio per raggiungere Leopoli che dista da Shehyni circa un’ora e mezza. L’obiettivo è arrivare in stazione entro le 10 massimo perché alle 11,30 parte da Leopoli l’unico treno del giorno per Kiev ma anche questo orario, la guerra, lo ha fatto saltare. Aspetterà il treno fino alle 16,30 del pomeriggio in un’attesa che sembra essere eterna e contornata da poche ore di sonno, molta stanchezza, poco cibo mangiato, ancora meno acqua bevuta per paura di non poter andare ai servizi se necessario. Un pò di riposo arriva sul treno nelle 7 ore di viaggio per Kiev, su quel treno che ha viaggiato, a luci spente, a tendine abbassate, con anche le luci dei cellulari spente perché tutto può attirare possibili bombardamenti, dove si parla a bassa voce e non sono accese persino le luci sui binari. A Kiev arriva ben oltre il coprifuoco, che in città inizia alle 20, è necessario quindi aspettare le 8 di mattina per uscire dalla stazione e, soprattutto, è necessario prenotare il taxi per poter essere tra i primi ad attraversare l’unico ponte rimasto aperto (gli altri sono stati chiusi per motivi di sicurezza) che taglia la città per evitare le lunghe file dovute ai controlli documenti.
Riesce anche in questo e alle 9 del mattino del 7 marzo riabbraccia la mamma che la stava aspettando. Il loro viaggio alla volta dell’Italia inizia all’indomani, giorno della Festa della Donna e sarà fatto di 11 ore di treno, 22 di pullman, notti di riposo in hotel e di un racconto di Elena di questa seconda parte del suo peregrinare che si fa più disteso e corrispondente alle precise emozioni vissute realmente, sua mamma era già con lei, erano insieme, la paura era stata sconfitta. Da Kiev a Leopoli in treno, Leopoli-Cracovia in pullman e poi è necessario proseguire via terra perché per mamma Vita non è possibile prendere l’areo, quindi, sempre a mezzo autobus alla volta di Budapest, poi ancora Venezia e poi in treno verso Porto San Giorgio dove arrivano il 15 marzo. Ad aspettarle c’è Walter che non vede l’ora di riabbracciare la sua Elena. Quando la voce, rotta dall’emozione, di chi la sta ascoltando raccontare le dice «hai avuto un grande coraggio, sei stata bravissima» gli occhi di Elena si riempiono di lacrime. Come se al suono di quella parola “coraggio” all’improvviso le fossero tornati in mente, l’amore verso sua madre che è quello che l’ha spinta a vivere tutto questo, i compagni di viaggio conosciuti durante il percorso, ognuno mosso da una motivazione altrettanto pari alla sua, quel campo profughi allestito vicino alla frontiera, i carri armati che presiedono le città, il freddo, la paura, la disperazione e il senso di impotenza impressi negli occhi di un popolo in fuga dalle loro città. A Kiev, per Elena e sua madre, restano il gatto andato a casa di un uomo di buon cuore che lo ha accettato (perché nonostante ci sia la guerra gli animali si cerca di non abbandonarli), la casa che degli amici di famiglia controlleranno non venga occupata da nessuno, quella valigia piena di cibo che serve di più a chi sta vivendo in un paese in guerra, tutti i ricordi di una vita intera che non vedono l’ora di poter rispolverare e portare di nuovo alla luce.
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