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Teatri senza Frontiere, Renzi tira le somme dopo l’esperienza a Nairobi: «Il degrado e la povertà negli slum supera ogni immaginazione»

IL RACCONTO di Marco Renzi da uno degli slum più poveri della capitale del Kenya. Lì dal 17 settembre al 2 Ottobre, un gruppo di attori volontari, provenienti da diverse compagnie italiane di teatro per ragazzi, ha tenuto laboratori e spettacoli nelle baraccopoli, regalando il piacere del teatro e sorrisi anche a chi non ne dispone

 

di Marco Renzi (foto di Ruggero Ratti)

«Nairobi, Città/Continente dalle mille contraddizioni e senza scala dei grigi, dove ogni cosa è esagerata e nulla somiglia a ciò che conosciamo. Ho visto tanta povertà in giro per il mondo: nelle strade dell’Etiopia, sotto i ponti di Manaus, nelle favelas di San Paolo, nei mercati senza fine di Accra, nei campi Rom dell’Albania, tra i profughi della Bosnia Erzegovina, ma il degrado degli slum di Nairobi non è paragonabile e niente di tutto questo e supera ogni immaginazione. Due milioni e mezzo di uomini, donne e bambini che vivono di nulla e che ogni giorno, come il famoso leone della savana, sanno che debbono correre per procurarsi del cibo, qualunque esso sia, il tutto vicino ai quartieri residenziali dove la ricca borghesia africana e i business man occidentali sembrano vivere su pianeti con orbite proprie e diverse. I segni di questa innaturale convivenza si materializzano sulle alte mura, cinte di filo spinato, in cui tutti i residence sono chiusi, con guardie che controllano i cancelli d’ingresso giorno e notte. Altra maledizione sta nell’impossibilità di andare a passeggio dopo il calar della notte, i ricchi si rintanano a casa o nei locali che conoscono ma le strade restano loro precluse, anche negli stessi quartieri dove vivono, possono passarci solo in automobile, quasi che i poveri avessero trovato in tutto questo una loro personale vendetta. Vivendo a Nairobi si ha la sensazione di stare seduti su una polveriera in procinto di esplodere da un momento all’altro, eppure così non è, tutto va avanti e tutto si muove, come in un gigantesco formicaio».

«Il Kenya è uno dei pochissimi Paesi al mondo che ha superato il 90% di produzione di energia rinnovabile: eolico, fotovoltaico e soprattutto geotermico coprono oramai il fabbisogno nazionale, eppure le strade della stessa capitale sono poco illuminate, la corrente elettrica costa e i poveri nelle baracche stentano a permettersela, paradossi di un sistema dove la corruzione è all’ordine del giorno e fa lievitare i costi di un bene che pure abbonda. Nelle strade di Nairobi l’aria è pesante, carica di fumi puzzolenti derivati da un traffico caotico e un parco macchine obsoleto (almeno quello dei bus, camion, ape car ecc) eppure vige ovunque il divieto di fumare sigarette, strade incluse, si può fare solo nella propria abitazione o in pochissime aree riservate che bisogna conoscere e trovare. L’acquedotto è un privilegio di quelli che abitano nei quartieri ricchi, gli altri (gli intermedi) posizionano sui tetti delle case enormi cisterne che vengono rifornite da un esercito di autobotti, negli slum l’acqua si compera a taniche e poi si porta a casa, con un costo molto più alto rispetto a quello dei ricchi. Non esiste una raccolta dei rifiuti organizzata e meno che mai differenziata, ci sono operatori privati con i quali i vari residence stipulano accordi, questi la vanno a prendere e poi la portano in discarica, gli altri si arrangiano. Negli slum la spazzatura è ovunque, caratterizza il panorama e ne costituisce il principale elemento decorativo, quando poi le cataste crescono troppo si procede a bruciarle e l’aria si arricchisce di diossina».

«Non è mai facile capire una città, questa in modo particolare: è grande, complessa, contraddittoria, richiederebbe anni, quello che ho fatto è scattare qualche foto con la mia penna e mandarvela».

I MATATU

«Sono uno degli elementi tipici di Nairobi, i più visibili al primo approccio, autobus di media grandezza, 20 posti circa, completamente trasformati e dipinti con colori da murales urbano, vengono battezzati come le barche, con nomi divertenti ed evocativi: Sultan 0047, Raj, Prince, Papito, Tribal, Avatar ecc. La particolarità è che l’interno è dotato di un impianto audio da discoteca, con video disseminati un po’ dappertutto e bassi che fanno tremare ogni cosa: vanno, sempre e ovunque, collegando le periferie al centro, con la musica a palla che arriva fino ai marciapiedi, mischiandosi a quella degli altri, in un concerto di gente ed allegria. Sono migliaia, coloratissimi, pieni fino all’inverosimile, con la porta passeggeri sempre aperta, dove staziona un addetto che ad ogni fermata urla e richiama l’attenzione della gente: invita a salire, magnifica le prestazioni di quel Matatu, indica la destinazione e incassa i soldi, un viaggio di circa un’ora e mezza lo abbiamo pagato 40 centesimi. Quando è il momento di ripartire, l’addetto, dall’esterno, batte un paio di colpi forti sulla carrozzeria, in maniera che l’autista senta e capisca che può muoversi. Un viaggio in Matatu è imperdibile, anche se alla fine si esce con la testa che rimbomba di musica scadente, vale comunque la pena farlo. La stazione centrale di questi mezzi di trasporto è la materializzazione di Babilonia: polvere, nuvole di fumo nero, urla, ingorghi, tutto insieme e in continuazione. La loro giornata comincia al mattino presto, verso le quattro, quando fanno suonare i clacson all’impazzata chiedendo strada, disturbano tutti senza la benché minima preoccupazione. Ogni santo giorno che sono stato a Nairobi le loro trombe mi hanno premurosamente svegliato, come un orologio che scandisce l’ora esatta, per poi continuare fino a sera. Con l’avanzare della giornata a dar man forte ai Matatu arrivano altri fratelli: i Tuk Tuk (ape car trasformate in taxi), i Boda Boda (moto taxi) ed altri Matatu più piccoli (6 posti), in una sarabanda che anima tutte le vie della città, perché la vita di Nairobi è tutta nelle strade. Fiumi di gente le percorrono, in lunghe processioni senza fine e su ambo i lati, tra marciapiedi incerti, costeggiati da fogne a cielo aperto, con traballanti passerelle in legno che bisogna attraversare per guadare l’acqua nera e raggiungere le centinaia di migliaia di botteghe che fioriscono ovunque: quatto pali, un tetto di lamiera ed è fatta la boutique o il salone del barbiere. Ogni cosa avviene nella strada, a vista: si cucina e vende cibo, si tagliano i capelli, gli artigiani costruiscono mobili, i meccanici riparano auto e moto, si vende di tutto ed anche di più, da mattino a notte, senza interruzione, sette giorni su sette. Nairobi è in sostanza uno sterminato mercato a cielo aperto dove i cinque milioni di abitati si vedono tutti. Nella missione dove siamo ospiti (Koinonia Community), hanno una scuola di acrobatica per ragazzi e anni fa sono stati invitati ad esibirsi in Danimarca, quando sono arrivati i giovani erano spaesati e domandavano preoccupati dove fosse nascosta la gente, vedevano le strade vuote e non capivano come potesse esistere un mondo senza vita nella strada».

I MAO MAO

«Chi di noi da piccolo non è stato minacciato dalla propria Madre che sarebbero arrivati i Mao Mao se non avesse mangiato? Ebbene, i Mao Mao, sono quelli che hanno maggiormente contribuito all’indipendenza del Kenya, senza di loro probabilmente non ce l’avrebbero fatta, sono partigiani, eppure in occidente sono diventati uno spauracchio. I Mao Mao in realtà erano della tribù dei Kikuju, che contava circa un milione e mezzo di persone, si calcola che gli occupanti, gli inglesi, ne abbiano sterminati mezzo milione in campi di concentramento nel nord del paese che nulla avevano da invidiare a quelli che Hitler ci ha fatto tristemente conoscere. Il colonialismo inglese è stato efferato, ha ucciso, torturato, depredato le migliori risorse di questa Nazione, riconoscendo successivamente le proprie malefatte con conseguente assegnazione di relativi risarcimenti, eppure i Mao Mao, ancora oggi, sono gli altri, i neri. Miracoli della vita. Questo popolo è così devoto alla corona e al commonwealth che continua, oltre che a parlare inglese, anche a guidare a sinistra».

KOGOROCHO

«C’è una montagna, grande, fumante, con sentieri da salire e valli da scendere, completamente fatta di rifiuti: tempestata di bottiglie di plastica, pezzi di ferro, vetri e stoffe, di un colore grigio dominante ed un odore che si sente a centinai di metri di distanza. Un’isola circondata da un mare di baracche e popolata da circa duecentocinquantamila anime, moltissime delle quali basano la loro economia sulla discarica sessa. Come anime del purgatorio ci camminano sopra, armate di sacchi e secchi, raccolgono quello che trovano e lo portano a quelli che a valle poi lo espongono a terra o su fatiscenti bancarelle. Ci sono diverse “case” sulla montagna, con famiglie che ci vivono e bambini che giocano nella spazzatura tutto il giorno, respirando un aria che a voler essere eleganti definiremmo come insalubre. Siamo arrivati dopo una lunga via di spazzatura raccolta ed esposta, con diversi mucchi fumanti perché ogni tanto si brucia per fare spazio, abbiamo attraversato un ponte su un fiume di acqua nera, nel senso più vero della parola, senza più nessuna forma di vita al suo interno. Si sale, si incontrano baracche, si sale ancora, quatto pali reggono una tela e sotto delle persone sono sedute e bevono qualcosa, forse un te, come tra le sabbie del deserto. Salendo ancora le abitazioni scompaiono, in cima si aprono le grandi vallate fumanti e lontano, sul fondo, si ritagliano le inconfondibili sagome dei grattacieli del centro di Nairobi. Lassù, tra i fumi perenni, si distinguono figure muoversi lentamente, sono gli “sherpa” che raccolgono ciò che ancora può essere utile per portarlo a valle, in uno scenario difficile persino da immaginare. Tra le baracche di Kogorocho ha operato per tanti anni Padre Alex Zanotelli e dopo di lui altri ancora oggi continuano, ostinati, illuminati da una forza che va oltre la comprensione, strappano una bambina alla prostituzione, un bambino al kerosene e sul loro volto si disegna la felicità. Le anime da salvare sono tantissime, un esercito smisurato, ma i missionari combattono ugualmente, a mani nude, all’ombra di quei grattacieli lontani, e finché ci sarà gente come loro, l’umanità potrà ancora definirsi tale».

BAMBINI DI STRADA

«La più grande piaga di questa metropoli sono senza dubbio i bambini di strada, le stime delle autorità parlano di circa sessantamila presenze, per le ong e le associazioni che vi operano, potrebbero essere molti di più. Al di là dei numeri resta il dramma, un esercito di bambini soli vaga per la città, senza nessun punto di riferimento: soffrono la fame, sniffano kerosene per placarne il morso, dormono dove possono, fuggono all’arrivo della polizia in un concentrato di miseria, degrado e violenza che nessuno dovrebbe tollerare. Le ragioni per cui si ritrovano in strada sono diverse, prima fra tutte l’impossibilità delle loro famiglie di dargli da magiare, quel poco che guadagnano (spesso meno di un dollaro al giorno) non basta per tutti, i figli sono tanti e qualcuno se ne deve andare, altra ragione è la violenza familiare in cui spesso si trovano a crescere, con padri ubriachi che bastonano le mogli e tutto ciò che capita a tiro, allora andarsene significa anche salvarsi, altra causa scatenante è l’AIDS che miete ancora tantissime vittime, per cui capita che i figli restino senza genitori e senza parenti disposti ad accollarsi il loro sostentamento. Vagano per le strade della capitale, facendosi coraggio l’uno con l’altro, alla ricerca di cibo e alla mercè di chiunque voglia abusare di loro. Padre Kizito mi ha fatto conoscere un bambino che oggi ha sei anni, lo hanno trovato che ne aveva due e mezzo, lo hanno accolto e fatto studiare, l’ho visto giocare insieme agli altri con un’apparente serenità, la missione è oggi la sua famiglia, certo nessuno potrà mai sostituirsi alla madre e al padre ma quando questi non ci sono, bisogna pur fare qualcosa. Periodicamente un pulmino della comunità parte e va a cercare i bambini di strada, come loro anche quelli di altre organizzazioni, ci parlano e cercano di convincerli a farsi aiutare, i più piccoli sono quelli che oppongono meno resistenza, mentre per i grandi (dai 15 anni in su) tutto diventa più difficile. Il lavoro degli operatori consiste non solo nel vestirli, lavarli, dargli affetto, cibo e farli studiare, ma anche quello di tentare di ricongiungerli alle loro famiglie, cosa che non sempre riesce. Nella varie case che abbiamo visitato e in quella dove siamo ospiti, i bambini ricevono regolari pasti e, cosa importantissima, studiano, molti sono arrivati all’Università, lavorano e hanno le loro famiglie. Il processo di disintossicazione dalle droghe micidiali che prendono è uno dei passaggi più difficili, alcuni non ce la fanno, vanno in crisi di astinenza e scappano per tornare in strada, altri invece, e sono la maggioranza, riescono a superare questo macigno e a riabbracciare la vita. A Kivuli, il centro che ci ha accolti, abbiamo aperto un laboratorio teatrale a cui hanno partecipato circa quaranta ragazzi ex di strada, con loro abbiamo allestito uno spettacolo che poi hanno rappresentato in pubblico, dimostrando grande capacità di attenzione e un senso del ritmo e del movimento che in queste terre tutti sembrano avere già iscritto nel proprio dna. Gli operatori di “Koinonia Community”, che si occupano delle varie fasi del recupero di un ragazzo di strada, spesso sono stati a loro volta vittime di questa vergogna, conoscono le problematiche perché le hanno impresse sulla loro pelle e sanno come comportarsi. Stando insieme a questi giovani strappati dalla strada si perde la dimensione di quello che hanno subito, sono affettuosi, si impegnano, sorridono, ma se uno scava nei loro passati scopre ferite difficili persino da credere. Abbiamo visitato anche un centro governativo di accoglienza, con una capacità di ricezione di trecento posti, a gestirlo sono tre persone, un direttore e due collaboratori, dicono di non conoscere la parola ferie, meno che mai quella di domenica, la loro famiglia è oramai il centro stesso. Hanno polli, conigli e un orto, i ragazzi cucinano, puliscono, vanno a scuola e molti riassaporano il gusto della vita. Il lavoro che tantissimi operatori e volontari fanno è enorme, ridanno alla vita bambini che altrimenti si sarebbero persi chissà dove, andando spesso incontro anche alla morte. Ogni giorno danno il meglio di loro stessi, affrontando un esercito che sembra non avere fine, nessuno si scoraggia, vanno avanti, consapevoli che quella dei bambini di strada è una piaga di cui ogni governante dovrebbe vergognarsi. Non ci sono scuse che tengano, quando si compera un carro armato o un caccia, i Presidenti dovrebbero avere la consapevolezza di quello che accade nelle strade delle loro città e dare priorità alle cose che contano».

«Per entrare in Kenya è richiesto il visto, procedimento lungo ed anche costoso, tra le risposte che bisogna dare c’è anche quella delle ragioni del viaggio e tra le varie possibilità non è contemplata quella della missione umanitaria, forse a voler affermare che non può esistere una simile ragione per andare in Kenya, al punto che abbiamo dovuto barrare la casella del turismo. Non si cancella la realtà con un gioco di parole, bisogna piuttosto affrontarla e avere il coraggio di fare scelte diverse, una volta tanto improntate alla vita e non al profitto, meno che mai alla guerra».

«Quello che ho scritto è ciò che ho visto in questa incredibile città che è Nairobi, poi c’è una nazione enorme intorno, con una natura di una bellezza sconvolgente: fatta di montagne, mare, altipiani e tutti quegli animali che da sempre abitano nel nostro immaginario: leoni, elefanti, giraffe, gazzelle, zebre, ippopotami, rinoceronti, coccodrilli. Un paese dove la povertà si tocca con mano come pure la ricchezza e con milioni di persone allegre e sempre sorridenti. TEATRI SENZA FRONTIERE terminerà il suo lavoro sabato 1 ottobre, alla fine avrà allestito un laboratorio con quaranta ragazzi ex di strada, effettuato undici spettacoli, toccando slum impensabili (vedi report precedenti) e regalando a tutti il piacere di stare insieme e godere di uno spettacolo teatrale. Grazie ai volontari che hanno reso possibile anche questo progetto: Marco Pedrazzetti (Filodirame), Noemi Bassani e Stefano Tosi (L’Arca di Noe), Marco Renzi (Proscenio Teatro), Maurizio Stammati (Teatro Bertolt Brecht), Giovanni Risola (Otto Panzer), Paolo Comentale e Anna Chiara Castellano Visaggi (Granteatrino), grazie a Ruggeo Ratti per la documentazione fotografica, a Elettromedia, Clown & Clown, Veregra Street e Comune di Montegiorgio per il fattivo sostegno, a Padre Renato Kizito Sesana e a Koinonia Community per l’ospitalità e la logistica, grazie infine a cronache fermane per averci dato voce».


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